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Martedì 01 MARZO 2011
Chiara Giovenzana: italiana, giovane e brava. La storia di una ricercatrice che ce l'ha fatta

Trentuno anni da poco compiuti, una laurea e un dottorato in Biotecnologie mediche e una borsa di studio Fulbright Best, con la quale ha frequentato corsi di “Technology Entrepreneurship” alla Santa Clara University. La scorsa estate ha fatto parte del programma Singularity University presso la Nasa. Ora vive in Svizzera ed è lo chief executive officer di Cellec Biotek AG, la neonata impresa che sviluppa e vende biorettori per la coltivazione delle cellule in 3D. Ecco la sua storia.

A soli 31 anni, Chiara Giovenzana ha un bagaglio di esperienze internazionali frutto di un grande impegno dispensato per 7 anni tra l’Italia, l’Europa e gli Stati Uniti. Nel 2008 ha vinto la borsa di studio con Fulbright BEST, il programma Italia-Usa, sostenuto anche da Farmindustria, rivolto a giovani ricercatori nei campi dell’ICT, Biotech, Tools and Machinery, Energy and Green Technology che lavorano su idee imprenditoriali, risultato di progetti di ricerca, da trasformare in un business gestito in prima persona.

Oggi, a Basilea, in Svizzera, è a capo della Cellec Biotek AG, la start up inaugurata il 3 febbraio che sviluppa e vende biorettori, dispositivi biotecnologici che permettono di coltivare le cellule in tre dimensioni e di generare tessuti biologici per scopi che vanno dalla ricerca di base, alla clinica, allo sviluppo di nuovi farmaci. Tra i fondatori cc’è anche Ivan Martin, professore dell’Università di Basilea e tra i maggiori esperti mondiali di ingegneria dei tessuti e di medicina rigenerativa.

Quotidiano Sanità l’ha intervistata per scoprire come una giovane ragazza sia riuscita in così poco tempo a costruire un progetto tanto importante. Questioni di capacità personale, certamente. Ma come a lei stessa piace sottolineare, di una buona dose di intraprendenza. Perché “l’unico modo per riuscire è rischiare”.

Dottoressa Giovenzana, ripercorrere i primi passi della sua formazione significa indietreggiare solo di qualche anno. Può raccontarci i passaggi fondamentali?
Negli ultimi anni ho cambiato casa sette volte, per studio, lavoro e attività di volontariato. Mi sono laureata nel 2004, a Modena, in Biotecnologie Mediche. Cinque anni che hanno scosso la mia curiosità e le mie conoscenze scientifiche.
Dopo alcune brevi esperienze di ricerca in Europa e negli Stati Uniti, nel 2007 ho ottenuto un dottorato in Biochimica, Biologia Molecolare e Biotecnologie presso l’Università di Ferrara, a cui ha fatto seguito, nel 2008, un post-doc nel laboratorio di Tissue Engineering dell’University Hospital Basel. È in questa occasione che ho incontrato il dottor Martin. Ma non potevo fermarmi, perché avevo desiderio di allargare le mie conoscenze oltre la scienza.
Ho quindi presentato domanda per entrare nel programma Fulbright BEST con un progetto sull’applicazione commerciale dei bioreattori, che erano stati alla base del mio lavoro in Svizzera. La mia domanda venne accettata e così, per 6 mesi, mi sono immersa nella “entrepreneurial life”, cioè nel mondo dell’imprenditoria applicata alla scienza. Era il 2008. Un’esperienza che mi ha cambiato la vita.

Qual è stata la sua destinazione con il progetto Fulbright BEST?
La California. Sono entrata a far parte del network della Silicon Valley, frequentando per sei mesi un corso di “Technology Entrepreneurship” presso la Santa Clara University. L’obiettivo era quello di imparare a trasformare un’idea scientifica in business, quindi creare un startup.

In che modo le ha cambiato la vita?
Mi ha cambiato la vita perché da topo di laboratorio mi ha trasformata in una manager della scienza. Mi ha permesso di guardare la scienza da due diverse angolazioni, quella scientifica, appunto, e quella imprenditoriale.
Ma non è stata solo un’esperienza di studio. È stata un’esperienza di grande intensità dal punto di vista umano. Quello che ho imparato lo devo al contatto con l’intero entourage della Fulbright Best, persone di grande esperienza che ci hanno dedicato il loro tempo e condiviso con noi il loro sapere. Ci hanno sostenuti in tutto il percorso. Ci hanno aiutato ad entrare in un network, di una vera e propria rete di contatti da cui raccogliere input, suggerimenti e consigli. Persone sui cui possiamo contare ancora oggi, mentre cerchiamo di realizzare i nostri progetti.
Altrettanto importante e intenso, sia dal punto di vista formativo che umano, è stato il confronto con tutti gli altri ragazzi che, come me, partecipavano in qualità di vincitori della borsa di studio

Quanti eravate?
Durante il mio anno eravamo 14 , ma il numero varia tra 10 e 20. Si cresce insieme, ed anche in questo caso non si tratta di un’esperienza che conclusa con lo scadere del programma Fulbright. Anche perché i miei compagni di avventura, così come i ragazzi che ci hanno preceduti e quelli che verranno dopo di noi, saranno i futuri chief executive officer, i futuri consulenti o investitori del settore. Insomma, continueremo a crescere insieme nel mondo del lavoro.
È un principio al quale crediamo così fortemente che nel 2009 abbiamo anche deciso di creare l'associazione degli alunni della Fulbright Best, che si chiama Best Alumni e che io ho l’onore di presiedere.
L’associazione raccoglie tutti coloro che hanno partecipato al programma Fulbright BEST ed è stata creata in particolare con tre obiettivi: diffondere Fulbright Best, creare tra gli alunni eventi di networking in collaborazione anche con altre organizzazioni; aiutare e promuovere imprenditoria giovanile in Italia.
Abbiamo promosso un evento proprio pochi mesi fa e ci prepariamo ad organizzarne un altro entro la prossima estate.

Ci racconti della Cellec Biotek.
Il professor Martin mi propose di formare una company al mio rientro dagli Stati Uniti, nel luglio del 2009. Come dicevo, il progetto aveva già preso forma durante la mia esperienza Fulbright, anche se poi è stato necessario oltre un anno di lavoro per renderlo realtà. La Cellec Biotek AG è stata inaugurata il 3 febbraio scorso a Basilea.

Produce bioreattori per coltivare le cellule in 3D. Può spiegarci con maggiori dettagli in cosa consiste?
In fase sperimentale, i bioreattori venivano già prodotti ed offerti gratuitamente all’interno di protocolli di collaborazione che venivano di volta in volta siglati con diverse istituti di ricerca. Ma si trattava di prototipi che venivano costruiti manualmente in laboratorio. Oggi la Cellec Biotek AG è in grado di rendere questi prototipi un prodotto definitivo, da vendere e quindi diffondere più ampiamente tra tutte le aziende che desiderano avere questo tipo di tecnologia.
Si tratta di un passo molto importante, perché la comunità scientifica è concorde nel ritenere la coltivazione delle cellule in 3D il futuro della scienza.
Si tratta, in pratica, di dispositivi biotecnologici in cui vengono inserite delle “spugne” tridimensionali che contengono le cellule. Questo ambiente permette alle cellule di crescere in tre dimensionale e di generare tessuti biologici per scopi che vanno dalla ricerca di base, alla clinica, allo sviluppo di nuovi farmaci.

Perché 3D?
Perché la tridimensione è la natura fisiologica della cellula. Ed è diverso da quanto accade ora in laboratorio, dove le cellule vengono coltivate in ambiente bidimensionale e il prodotto, quindi, discosta maggiormente da quello realmente esistente in natura.
Poter lavorare sulla tridimensione significa generare tessuti quasi identici a quelli umani, e quindi di ottenere applicazioni molto più precise ed accurate. I risultati biologici che si possono avere con i bioreattori sono incredibili.

Qual è il costo di un bioreattore?
Ci sono due modelli. Il primo ha un costo intorno agli 8 mila euro ed è un modello molto più semplice, in cui le cellule devono essere nutrite manualmente attraverso il controllo dei diversi meccanismi.
Il secondo è molto più sofisticato, perché automatizzato. Ha un costo che va intorno agli 80 mila euro, ma il vantaggio è sostanziale. Nel primo caso, infatti, è sempre necessario che vi sia personale che controlla i parametri e compie le azioni necessarie. Nel secondo caso, invece, basta inserire le cellule e aspettare che il processo si concluda, senza intervenire in alcun modo. Il risultato biologico è lo stesso in entrambi i casi, ma per un’industria farmaceutica l’automatizzazione comporta grandi vantaggi in termini di tempo e risorse umane.

Quante tempo occorre, in media, per ottenere il prodotto finale?
Dipende da che prodotto si vuole ottenere. Posso dire che in due/tre settimane otteniamo già un tipo di tessuto.

Dottoressa Giovenzana, il suo percorso è stato importante ed anche veloce. Ma si è svolto perlopiù all’estero. Crede che se fosse rimasta in Italia tutto questo sarebbe stato possibile?
Voglio anzitutto sottolineare che, anche se la Cellec Biotek ha sede a Basilea, lo sviluppo e la produzione dei bioreattori avverrà in Italia. È l’obiettivo che mi sono prefissata ed è condiviso da tutto il team, di cui fanno parte tre italiani.
Tornando alla sua domanda, non credo che restando in Italia avrei potuto realizzare tutto quello che ho realizzato. Sono però convinta di una cosa: la preparazione universitaria che ho avuto in Italia è assolutamente migliore di quella che avrei potuto avere all’estero. Una convinzione che deriva anche dal confronto con i ragazzi stranieri con cui ho condiviso tante esperienze.
Sono però altrettanto convinta che per un ricercatore sia importante andare all’estero, perché purtroppo, dopo la Laurea, l’Italia offre poco. Tanto meno se si è giovani e donne, come me.
Il mio obiettivo, però, con la Cellec, così come la Fulbright Best Alumni, è proprio di diffondere tra i giovani italiani le basi per sviluppare una capacità imprenditoriale made in Italy. Perché più di ogni altro fattore, quel che serve è la volontà e l’intraprendenza.

Il suo è un monito ai giovani ricercatori italiani?
In parte. È infatti vero che l’Italia fa poco per i suoi giovani, ma se metà della colpa è attribuibile alle istituzioni, l’altra metà è attribuibile ai giovani, a cui manca il coraggio di mettercela tutta e di rischiare.


 

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