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Sabato 01 AGOSTO 2015
Il medico e la diagnosi. Un binomio ancora inscindibile



Gentile Direttore,
rispondo a mia volta a Marcella Gostinelli
e non soltanto per il tono raffinato ed educato che anche lei ha usato verso di me. Se ho dato l’impressione di essere supponente nei suoi confronti le chiedo scusa perché questo non era nelle mie intenzioni e la rassicuro: in nessun modo le ascrivo il reato di essere una “semplice infermiera” che osa mostrare erudizione su una materia, la sociologia sanitaria che amo a suo pari, per muovere critiche alla Fnomceo. Ancora meno la accuso tout court di uso indebito della lingua dotta o della citazione ricercata perché ognuno usa le parole e le cose con cui ha maggiore affinità.

Sappiamo che lo scritto appartiene al suo autore solo per un tempo estremamente limitato e che questo inesorabilmente termina quando lo si offre alla lettura degli altri. Questo comporta allora che ciascuno lo possa interpretare come crede leggendovi in filigrana quello che a lui sembra che sia. Altra cosa è però tentare attraverso lo scritto di fare l’ermeneutica del soggetto, ovvero sia di interpretare quello che l’autore vuole dire anche senza neanche saperlo o cercare di definire le sue caratteristiche personali, inclinazioni o convinzione anche se da lui inespresse. Questo non è consentito e non ritengo giusto che altri lo facciano nei miei confronti.

La mia critica alla Ipasvi è esattamente complanare a quella riservata a Fnomceo o altra associazione professionale. Anche queste istituzioni, in quanto rappresentanti di specifiche professioni, sono artefatti sociali che utilizzano un set di logiche e di comportamenti rituali finalizzati al raggiungimento di una posizione di dominanza all’interno della divisone del mercato sanitario. Queste istituzioni inoltre, non diversamente dai partiti, sono soggette alla legge ferrea dell’oligarchia che col tempo trasforma i rispettivi dirigenti in una elite autoreferenziale che si sostituisce alla base e che pretende di poterne interpretare le aspettative, i desideri ed altro e che invece tende a perpetuare esclusivamente il proprio ruolo. In questa prospettiva le dichiarazioni di principio, i codici deontologici e tutto il resto che ingentilisce l’impalcatura delle associazioni ha un valore esclusivamente formale e direi strumentale perché finalizzato ad occultarne la vera natura.

Questo non significa ovviamente che l’esercente quella determinata professione non sia un soggetto morale; al contrario ognuno porta nel proprio lavoro quello che egli effettivamente è, e il modo in cui egli dà valore al volto dell’altro per usare una espressione del filosofo Levinas. E in questo senso sono anche io convinto come Gostinelli della necessità che vada coltivata la “dimensione spirituale dell’individuo medico” ed aggiungo, con totale convinzione, di tutti coloro che, indipendentemente dal loro ruolo, hanno a che fare con la cura dell’altro. La mia avversione alle grandi istituzioni professionali, di cui anche io faccio parte, deriva anche dal constatare la loro lontananza dalla vita reale , la loro afasia nel denunciare le diseguaglianze sanitarie presenti nella nostra società e i danni sulla salute umana prodotti da un modello di sviluppo industriale malsano e che solo pochi denunciano.

Non sostengo affatto che i medici debbano riconquistare la dominanza perduta per riportare le lancette della storia al periodo d’oro in cui essi signoreggiavano i fertili campi della medicina. Sostengo più semplicemente che essi nel corso degli ultimi lustri hanno subito un arretramento ingiusto e di dimensioni intollerabili a fronte delle responsabilità che ogni giorno si assumono; e questo a tutto vantaggio di altre figure professionali, in primis amministratori e direttori vari di ASL e Aziende ospedaliere, per non parlare poi dall’esercito sconfinato di politici di ogni razza e rango che di sanità si occupano. Quello che ho cercato di raccontare in “C'era una volta il primario” era esattamente la verità e non altro. Aggiungo poi e mi dispiace se Guido Giarelli di cui non pretendo di godere l’amicizia in termini esclusivi, non è d’accordo, che la divisione del lavoro sanitario non possa prescindere dal ruolo e dalle competenze proprie di ciascuna professione.
 
Possiamo anche non utilizzare il termine di leadership (che non amo e non uso) ma è inoppugnabile che fintanto che resteranno separati i percorsi formativi dei diversi professionisti sanitari sono i medici ad avere titolo nel campo della diagnosi e la terapia. E poiché è solo la diagnosi che fa di una persona un paziente e che questa  a sua volta, non è fine a sé stessa ma è strumentale alla terapia, ne consegue che colui che tali attività esercita per legge ha un ruolo non esclusivo, ma sicuramente centrale, nel processo di presa in carico del paziente.
 
Ringrazio Gostinelli per la buona lettura che mi ha consigliato e avendole già consigliato, seppure non richiesto un titolo, le auguro semplicemente di passare una piacevole estate.

Roberto Polillo 

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