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Sabato 18 APRILE 2015
Dai al medico quel che è del medico. E chi ha mai detto il contrario?
Gentile direttore,
leggo con attenzione ed interesse la lettera del Dr. Ciofani che, manco a dirlo, esalta la brutta e regressiva proposta di legge dei dodici Senatori del PD, di cui tanto si è discusso e, ancora troppo a mio modesto parere, si sta discutendo.
Il Dr. Ciofani riporta estratti di sentenze per dimostrare quello che, davvero, non c’è bisogno di dimostrare: Il medico deve fare il medico perché ha precise responsabilità. Teoria semplice e banale, dirà Lei, ma assolutamente inattaccabile da ogni punto di vista.
Ciò che continuo a non capire, leggendo i molti articoli e le molte lettere sull’argomento è: chi mai ha affermato il contrario?
Qui il problema non sta, o almeno non dovrebbe stare, nel definire i confini da mettere a tutte le professioni sanitarie per “proteggere” le prerogative mediche ma sta, o dovrebbe stare, nel trovare, una volta per tutte, un modello di cura ed assistenza degno del ventunesimo secolo.
Potrei riportare anche io diverse sentenze che indicano, senza ombra di dubbio, quanto il ruolo dell’infermiere sia primario nel processo di assistenza e cura e quanto le responsabilità siano in effetti condivise (es. Sentenza di Cassazione Penale n° 2192 del 16/1/2015 - Omicidio Colposo - dovere di vigilanza sulla prescrizione). Lascio questo lavoro, però, all’ottimo Luca Benci che meglio di me potrà, se vorrà, argomentare. Lascio a lui questo compito anche e soprattutto perché non credo che la chiave di volta del problema stia nelle sentenze.
Sono anzi convinto che quando la professione medica ed infermieristica finiscono con l’incappare nelle sentenze, lasciando al giudice il diritto e l’onere di decidere su materie di cui non ha competenza diretta e specifica, il primo a perdere sia il cittadino, seguito a ruota dalle professioni e dai professionisti che le esercitano.
Mi pare, e lo dico rispettosamente ma altrettanto fermamente, che negli ultimi anni la professione medica sia caduta in una sorta di crisi di identità che ha finito per sfociare in una specie di “sindrome da accerchiamento” (per carità, non è una diagnosi ma solo una constatazione…non vorrei essere denunciato per abuso di professione…). Forse i medici italiani dovrebbero lottare per avere un proprio profilo, così come esiste per le altre professioni sanitarie, ed iniziare a muoversi finalmente all’interno dei confini da esso disegnati, più che pensare a disegnare i confini altrui.
A fronte di una spinta verso l’ampliamento delle competenze (comma 566) per le professioni sanitarie ci si trova come interlocutore una professione medica (o per meglio dire molti suoi rappresentanti) che sembra avere paura di progredire e cambiare, imponendo agli altri, infermieri in primis, di non progredire e cambiare a loro volta. Si finisce per attaccarsi letteralmente alle singole attività che spesso, ormai, davvero poco hanno a che vedere con la competenza specifica (La firma sul tuo see & treat non la metto...ma farò di tutto perché tu non possa metterla in autonomia).
Mentre nei paesi anglosassoni, e non solo, abbiamo pletore di infermieri case manager e di infermieri specialisti che interagiscono perfettamente, tutti i giorni, con la parte medica, la quale davvero si occupa della gestione clinica del paziente (in senso ampio, specialistico e con la leadership che gli compete), in Italia un gruppo di Senatori pensa ad un progetto di legge che ci riporterebbe d’incanto ai tempi in cui l’infermiere stava in cucina a preparare il caffè per il primario ed il suo staff (di cui l’infermiere non faceva mai parte) prima di fare il giro del cambio dei pannoloni. C’è, evidentemente, qualche nostalgico..,si metta l’anima in pace, il mansionario non tornerà.
La mia domanda è: vogliamo progredire davvero o, piuttosto, vogliamo involvere nel nome di biechi interessi di parte che qualcuno vorrebbe addossare agli infermieri ma che, evidentemente, degli infermieri non sono?
Non è per caso che la paura di cedere spazi decisionali a personale che viene formato a livello universitario e che, sempre più spesso, ha uno o più master specialistici post laurea o consegue la laurea specialistica, ha qualcosa a che fare con le previsioni molto poco rosee su quei 12.000 medici disoccupati previsti per il 2020?
Chi sta proteggendo un interesse di casta? Si smetta, una volta per tutte, di dire che sono gli infermieri a farlo. Semplicemente non è così.
Sono stato formato, così come la totalità dei miei colleghi, a pensare che il ruolo del medico sia primario nell’organizzazione sanitaria e, ancora prima, nel processo di cura. Credo molto in questo assioma. Devo dire però che tra avere un ruolo di primo piano ed essere l’unico depositario della verità (anche di verità sulle quali, al giorno d’oggi, il medico non può e non deve essere competente) c’è un mare.
Un mare fatto di incomprensioni, frustrazioni professionali (non solo della parte infermieristica o delle professioni non mediche), e, questo è il lato peggiore, di assistenza e cure che potrebbero essere fornite in maniera molto più efficace. Questo se solo i medici lottassero per fare i Medici, e non i tuttologi, e agli infermieri fosse data davvero l’occasione di poter fare quello che sanno fare…molto di più, cioè, di quanto pensano quei dodici senatori e una minoranza di medici che ha però ancora eccessivo potere decisionale perché non debitamente bilanciata nei luoghi dove si decide.
Andiamo avanti, ognuno nel rispetto vero e tangibile delle posizioni altrui, e facciamolo in fretta. Che i medici superino, e lo facciano velocemente, il sacro timore di perdere terreno. Gli infermieri non sono qui a portare via nulla, se non un po’ di polvere, dai loro tavoli. Auspico che la Federazione IPASVI faccia la sua parte, nei livelli apicali, per favorire la strada del dialogo. Così, sono certo, faremo a livello periferico, ognuno nel proprio collegio di appartenenza.
Parliamo di competenze avanzate, sì, ma anche di organizzazione, di ruolo dei dirigenti infermieristici, di formazione e di tutti quegli ambiti dove gli infermieri possono fare la differenza. I sindacati facciano la loro parte mettendosi una volta tanto insieme e cercando obbiettivi che siano condivisi. Si inizi finalmente a parlare di qualità, quella che una dissennata politica di tagli nelle aziende e di simil-caporalato in molte strutture e cooperative private, sta da troppo tempo mettendo in secondo piano. Si inizi, infine, a rimettere al centro il benessere del paziente smettendo di usarlo come inconsapevole scudo protettivo per mantenere lo status quo.
Roberto Romano
Infermiere
Consigliere Collegio IPASVI Firenze
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