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Giovedì 09 APRILE 2015
Medici e infermieri “ausiliari”? Sì, ma gli uni degli altri
La discussione di questi mesi attorno al comma 566 si è fossilizzata sul "chi fa cosa" lasciando intendere che medici e infermieri debbano avere compiti precisi e sempre distinti. Mai intersecati tra loro. Ma sarebbe come fare due “giri visita” la mattina in ospedale. Uno dei medici e uno degli infermieri. Assurdo, no?
Non basta stabilire dei confini e dei domini professionali se non si consolidano le autonomie correlate con delle organizzazioni adatte e discrete.
L’esperienza della L. 42 dimostra che si può scrivere un nuovo profilo professionale, andare tutti all’università, ma se la nuova professione non è agita con delle riorganizzazioni del lavoro appropriate rimane sulla carta. L’accordo sulle competenze avanzate dello scorso anno non dice come riorganizzare il lavoro si limita a sotto intendere la L. 43 quindi a individuare delle “aree” che, in quanto tali, sono proposte a divisione del lavoro invariante. Noi invece abbiamo bisogno, di dare luogo ad un ripensamento paradigmatico dell’organizzazione che non definisca più mansioni ma condotte, poteri, facoltà, in una parola che definisca l’opera e il suo autore.
Inoltre avremmo bisogno di qualcosa che valga a scala di categoria, cioè per l’intera professione, e non solo per una sua minoranza o una sua élite. Per cui il discorso di riorganizzare il lavoro per consolidare le autonomie delle professioni deve valere in tutta Italia in tutti i contesti di lavoro per tutti gli operatori.
Il concetto di “area” non è un concetto di organizzazione ma solo di “spazio di lavoro” nel quale insistono soprattutto delle specialità organizzate nel solito modo. Quindi nell’eventuale accordo tra le professioni il sistema sanitario andrebbe assunto come una unica “area” popolata da diverse forme di organizzazione: domiciliare, distrettuale, ambulatoriale, dipartimentale, di reparto, integrata a continuità assistenziale, in rete...perché tanto il medico che l’infermiere operano comunque dentro organizzazioni.
L’organizzazione del lavoro, nel bene e nel male, è un explanandum fondamentale per definire in concreto le prassi delle professioni. Non si avrebbe mansionario senza una certa divisione del lavoro e senza mansionario non si potrebbe parlare di demansionamento.
Tutte le varie forme di organizzazioni che abbiamo, hanno tutte una matrice taylorista, quindi va ripensata questa matrice. Mansione, mansionario, compito, competenze sono tutti termini del vocabolario taylorista cioè di una idea del lavoro gerarchico diviso, parcellare e ausiliario.
Un accordo che si rispetti per camminare davvero dovrebbe sostituire l’organizzazione tayloristica con una organizzazione interconnessionale ma a scala di sistema. Altrimenti tutte le chiacchiere sulla multiprofessionalità e sulla multidisciplinarietà restano tali. Ma come fare? Le situazioni di lavoro reali degli operatori sono tante, disparate, come tanti e disparati sono i contesti di lavoro, per cui le strade possibili che vedo sono due:
· o si mette a punto un repertorio di tutti i contesti di lavoro specificando sulla scorta delle autonomie correlate delle professioni le organizzazioni del lavoro, più adatte (dall’assistenza domiciliare fino al più sofisticato servizio specialistico);
· o come io preferisco ci si accorda su uno schema base di organizzazione interconnessionale fissandone i postulati e i condizionali ma delegandone la specificazione alla contrattazione decentrata tra professioni servizio e azienda.
Passare da una organizzazione tayloristica ad una organizzazione interconnessionale è possibile a quattro condizioni:
· andare oltre l’idea che la cura sia la somma delle cure, che una equipe sia la somma delle professioni, cioè passare dal concetto di insieme pluriprofessionale al concetto di sistema interprofessionale;
· superare le attuali “giustapposizioni” che costituiscono l’insieme delle professioni sommando ruoli separati sostituendole con relazioni funzionali che al contrario creino condizioni di sistema vale a dire di cooperazione tra ruoli organizzati in gruppi ordinati, equipe, ecc;
· superare le forme del governo gerarchico e verticale tipiche del taylorismo e affermare forme di governo coordinative per sovraintendere un lavoro che si svolga elettivamente su base programmatica;
· aggiornare metodologie e prassi.
Se le storiche giustapposizioni tra medico e infermiere sono sostituite da nuove relazioni tra le loro autonomie, le organizzazioni a tutti i livelli debbono essere interconnessionali.
Io credo che la multidisciplinarietà sia per definizione complessità da coordinare e che le visioni centralistiche e gerarchiche del taylorismo rispetto alla complessità da coordinare siano sbagliate e fuori luogo, per cui secondo me si dovrebbe definire un quadro di regole entro il quale:
· dare alle professioni la libertà di definire in modo discreto le loro organizzazioni adatte,
· le forme di governo più appropriate,
· le loro condotte professionali.
Quello che conta è orientare qualsiasi cosa al meglio per il malato e dare all’azienda delle ragionevoli garanzie di economicità. Se il budino piace al malato allora il budino è buono. Se funziona, perché no? E’ ciò che definisco un approccio pragmatico.
Un’ultima questione. Molti problemi del comma 566 nascono secondo me perché vi è una visione rigida e dogmatica del concetto tanto di autonomia che di ausiliarietà. Quello che si vuole fare con il comma 566 è togliere compiti marginali ai medici ma senza essere costretti a dipendere dalla loro potestà...perché si teme quella che, anche io ho definito, una neoausiliarietà. Ma a pensarci meglio se si definiscono bene le autonomie delle professioni dentro organizzazioni interconnessionali, questa paura della neoausiliarietà diventa esagerata e fuori luogo. Per cui ripropongo una idea per me vecchia ma sempre buona: quella della ausiliarietà reciproca. Mi si risparmi il facile equivoco e la facile strumentalizzazione, cioè per favore non si dica che voglio reintrodurre l’ausiliarietà.
Dico che in certe circostanze dopo aver definito in modo inequivocabile le autonomie, (rispetto pieno della L. 42), tanto il medico che l’infermiere sono ausili perché l’uno senza l’altro non vanno da nessuna parte. La logica dogmatica del comma 566 limita enormemente le possibilità di una ridefinizione delle condotte professionali nel senso che riduce i compiti trasferibili solo a quelli che effettivamente gli infermieri sono in grado di svolgere senza i medici escludendo tutti quelli, che non sono pochi, e che implicherebbero il ricorso alla reciproca ausiliarietà.
La principale obiezione che il comma 566 ha incontrato da parte dei medici è che la dicotomia complesso/semplice in medicina non può essere data perché sussistendo la probabilità della complicazione nulla in realtà è semplice. Per cui se tutto si può complicare e la complicazione è un problema del medico tutto rientra nelle sue “competenze”. Ma nel quadro delle autonomie descritte è più ragionevole che il rapporto tra certe prestazioni e eventuali complicazioni siano condivise dai medici e dagli infermieri in piena collaborazione condividendo una responsabilità. Lo stesso ragionamento vale per la prescrizione di certi farmaci (proposta di legge spagnola) o di certi presidi di stretto uso assistenzialistico (trovo improprio che sia il medico a dover prescrivere i pannoloni), e per altre cose.
Il comma 566 non pensa alla corresponsabilizzazione perché temendo la neoausiliarietà si cautela con la logica dicotomica: la responsabilità o “è medica” o “è infermieristica” cosa che va bene per tutto ciò che è specifico e esclusivo...ma è irrealistico...se esclude tutto quanto è dell’uno e dell’altro...o può essere concordato, condiviso, integrato. Secondo me questa rigidità non conviene prima di tutto agli infermieri.
Se si intende seriamente l’idea di engagement non si può ragionare allo stesso tempo di multidisciplinarietà e separare le responsabilità. Questa è una contraddizione:
· se si vuole lavorare nella multidisciplinarietà allora si deve parlare di corresponsabilizzazione,
· se si vuole separare, come propongono alcuni infermieri, la clinica dall’assistenza allora si devono separare le responsabilità e tagliare in due gli ospedali,
· se esistono delle specifiche responsabilità professionali allora esistono delle specifiche responsabilità inter professionali.
Ricordo che la dicotomia è la divisione di qualcosa in due parti (diade) di qualcosa che è comune allo stesso setting. Nella pratica la visione dicotomica delle condotte professionali vale fino a un certo punto oltre il quale bisogna ammettere che esistono cose comuni che non necessariamente si escludano dualisticamente a vicenda ma che possono essere complementari. Il “giro visita” in un ospedale è una cosa comune che vede medici e infermieri insieme. Sarebbe impensabile concepire due giri visita separati uno del medico e uno dell’infermiere. Cioè il limite del comma 566 è che ragionando per diadi complesso/semplice, medici o infermieri, competenze avanzate e arretrate, esclude un terza possibilità che per altro è quella più comune e cioè che medici e infermieri insieme possano anche cooperare.
Non ho altro da aggiungere anche se ci sarebbe ancora molto da approfondire. La mia è una proposta di massima. Dopo aver letto l’articolo davvero prezioso di Mimmo D'Erasmo (QS 7 aprile 2015) devo scusarmi e spiegarmi. E’ per ragioni di semplificazioni che nel mio ragionamento mi sono limitato a parlare di medici e di infermieri. Ma posso garantire che la mia proposta vale per tutte le altre professioni sanitarie dal fisioterapista all’ostetrica.
Ho letto alcuni commenti sul web e su questo giornale che giudico affrettati e poco ponderati. Alcuni sono giudizi pregiudizialmente sommari per essere presi seriamente in considerazione, altri sono estrapolazioni di frasi che separate dall’intera proposta possono significare tutto e il contrario di tutto. Suggerisco meno fretta, più riflessione e più approfondimento e soprattutto più spirito costruttivo. In questa situazione dove le professioni sono state messe in conflitto non è facile fare proposte e tenere conto di tutto e di tutti.
Ma le cose vanno male e rischiano di peggiorare per cui resto convinto che oggi più che mai sia necessario un accordo tra le professioni. Non senza difficoltà ho cercato di ridurre delle distanze, di posizionare tutte le professioni su un piano di pari legittimità, di ridimensionare delle differenze e delle contrapposizioni, e di fare delle proposte compossibili...ma soprattutto ho tentato di fare quello che avremmo dovuto fare da anni e cioè un salto riformatore nella progettazione.
Da anni sostengo con poco successo aimè che i paradigmi professionali non possono restare invarianti se tutto cambia...e che è arrivato il momento di rimuovere il loro sempre più crescente grado di regressività. Ormai la L. 42 dopo anni di disapplicazione è andata…di fatto superata dagli eventi. Oggi non mi sognerei di scrivere il profilo professionale o l’atto medico con delle definizioni circoscriventi che non circoscrivono niente. Oggi è arrivato il tempo dei reticoli professionali cioè di definizioni contestualizzate, circoscritte analitiche realistiche.
Vorrei riassumere la mia proposta di accordo interprofessionale che auspicherei fosse discussa in tutte le sue parti e ripeto con spirito costruttivo ma soprattutto che fosse discussa:
· si prepari un documento di intenti che descriva i problemi reali delle professioni e che sancisca un rifiuto netto alla pratica del demansionamento e alle varie forme di decapitalizzazione ponendosi l’obiettivo della coevoluzione delle professioni,
· con un accordo si definiscano i confini tra le autonomie professionali e i loro poteri nel senso di distinguere le professioni per integrarle meglio,
· con un protocollo operativo da allegare all’accordo si definiscano i postulati e i condizionali di nuove organizzazioni del lavoro decentrandone l’attuazione.
Ivan Cavicchi
Leggi i tre precedenti articoli di Cavicchi per una proposta di accordo tra medici e infermieri (L'atto medico e l'orto degli altri, Al di là del 566. Ma cosa vogliono realmente i medici, gli infermieri…e i malati?, Medici e infermieri. L’accordo possibile. Agli uni il governo clinico e agli altri la gestione della cura)
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