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Martedì 24 FEBBRAIO 2015
Liberalizzazioni. “C’era una volta la farmacia”. Le cose che Guidi e Renzi non sanno o non dicono
Pensare che l’arrivo di grandi catene uniproprietarie di farmacie non cambi l’assetto del sistema di distribuzione del farmaco è quanto meno una ingenuità. La stessa convenzione con il Ssn cambierà, perché al tavolo non ci saranno più professionisti ma imprese commerciali. E poi siamo sicuri che per l’economia e l’occupazione siano meglio poche grandi farmacie di capitali al posto di 20mila “piccole imprese”?
Nell’articolo di Gianfrate di ieri sono stati messi bene in evidenza i vantaggi (per chi) e gli svantaggi (per chi) in termini di ritorno economico derivanti dallo sdoganamento dei capitali nella proprietà e titolarità delle farmacie previsto dal ddl Guidi.
Nell’articolo di sabato dell’avv. Federico Jorio e nella nota del segretario della Fofi Pace di venerdì scorso, venivano invece adombrati rischi pesanti sul possibile ingresso nel mercato delle farmacie “capitalizzate” del grande giro del riciclaggio illecito (farmacie come “lavanderie di denaro”, scriveva Pace) che certamente dovrebbe far riflettere, se non altro sulle misure preventive da adottare per evitare che ciò accada, qualora il ddl passasse indenne l’esame parlamentare.
Due analisi importanti sulle quali non torno. Ciò che vorrei analizzare è invece il perché della scelta del governo, al di là delle facili battute sulla convenienza di questo o quel protagonista interno o esterno all’esecutivo.
Il fatto che vi possano essere interessi dietro ogni scelta del Governo è un fatto, la cui negazione o è in mala fede o è troppo ingenua e in fondo poco rilevante. Così è in tutto il mondo. Dietro ogni scelta dei governi, alla fine, qualcuno ci guadagna o perde più di altri. Pensare a scelte che siano sempre “universalmente” positive è francamente troppo ottimistico se non pura ideologia astratta.
Detto questo è però altrettanto evidente che nel gioco del dare avere non è accettabile, a meno di non sposare la logica delle novecentesche “repubbliche delle banane”, che a trarre vantaggio da una determinata scelta sia solo una categoria o peggio ancora una ristretta cerchia di persone.
Ma ciò che mi lascia ancora una volta perplesso, come ebbi modo di scrivere all’epoca della seconda ondata di liberalizzazioni ad opera del Governo Monti, è che ancora una volta sembra mancare, o quanto meno nessuno ce l’ha illustrata, una visione generale del “perché” e del “cui prodest” capace di andare al di là dell’assioma secondo il quale “liberalizzare” è comunque positivo.
La domanda fondamentale era allora e resta oggi questa: quale sistema di distribuzione del farmaco inteso come pezzo integrante del Ssn vogliamo? Partire dalla logica liberalizzatrice, senza prima aver chiarito se si vuole comunque mantenere (e come) un servizio regionale farmaceutico pubblico, è una follia. Vogliamo chiederci o no se vogliamo che vi sia comunque una farmacia in ogni parte del Paese (anche dove non è meno redditizio)? Con turni e garanzie professionali garantite da una convenzione pubblica con i farmacisti che in tal modo vengono assimilati ad altre figure sanitarie (medici di famiglia, pediatri, specialisti ambulatoriali, case di cura, ecc.)? E soggetti pertanto a regole ben precise nel rapporto con i loro “clienti”?
Ma non basta. I diversi fautori delle liberalizzazioni “a prescindere”, hanno forse valutato con un vero piano industrial/commerciale quali vantaggi reali si avrebbero per lo Stato e per i cittadini da un sistema di distribuzione e vendita del farmaco progressivamente assorbito dalla grande distribuzione e dalle grandi catene di “farmacie spa” come diventerebbe inevitabile una volta incrinato il carattere “professionale” della convenzione Ssn/farmacie?
E poi c’è un’ultima valutazione di politica industriale. Le circa 20mila farmacie attuali rappresentano un esempio reale di sopravvivenza di quella piccola imprenditoria che fino a poco tempo fa era osannata da tutti come motore del nuovo miracolo italiano. Sappiamo com’è andata a finire per molte di quelle piccole e anche medie imprese che non hanno saputo reggere l’impatto con la globalizzazione dei mercati e poi con la crisi devastante dell’ultimo decennio.
E infatti, nelle poche parole del Governo a sostegno del suo provvedimento sui capitali in farmacia, l’unica cosa che abbiamo inteso è che la finalità principale sembra essere, oltre a quella sbandierata di ottenere chissà quali benefici sui prezzi per i cittadini (dimenticando che la maggior parte dei farmaci resta a prezzo fisso negoziato e che comunque in questa categoria stanno tutti i farmaci costosi), con l’assicurazione che “nulla cambia nel rapporto farmacista cliente”, quella di favorire l’ingresso dei “soci di capitali”.
Ma quest’ingresso, oltre che ai capitali, a chi giova? Abbiamo messo sul piatto la contropartita della possibile disgregazione di un microsistema di piccole imprese familiari o pubbliche che comunque danno lavoro a decine di miglia di persone con un rapporto di fedeltà nel tempo indiscutibile (basti guardare alla farmacia sotto casa, i farmacisti e i commessi dipendenti sono quasi sempre gli stessi per anni) e che comunque fa circolare denaro e ricchezza nelle piccole economie locali senza dirottamenti e logiche finanziarie non sempre così trasparenti, se non altro per la destinazione finale dei profitti?
Perché si pensa che pochi grandi capitalisti della distribuzione siano più utili per il sistema Paese di tanti piccoli imprenditori che vivono del proprio lavoro e della propria professione senza altri interessi che non siano quelli di aprire la saracinesca ogni mattina dell’anno nelle grandi città come nei minuscoli comuni di cui è fatta l’Italia?
Ecco, sono questioni sulle quali mi piacerebbe si aprisse un dibattito serio. Senza limitarsi alla semplice motivazione che così avviene in molti altri paesi, nei quali, tra l’altro ora sono in molti a rimpiangere le vecchie “piccole” farmacie.
Cesare Fassari
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