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Martedì 30 DICEMBRE 2014
Formazione post laurea. Siamo sicuri che "in ospedale" sia meglio che all'Università?

Tra le proposte allo studio quella che consentirebbe ai giovani medici di entrare direttamente in ospedale dopo la laurea. Che però vorrebbe dire anche stipendio più basso e "sottovalutazione" della laurea in Medicina. E poi, è vero che l'Università ha i suoi problemi ma non mi sembra che in ospedale le cose vadano meglio

La questione sul tavolo non è di poco conto (vedi proposta contenuta nella bozza di decreto delegato ex art. 22 del Patto per la Salute). Favorire l’accesso alla formazione parallela in ospedale dei giovani medici che non hanno avuto accesso alla specializzazione, prevedendo la possibilità di un ‘rientro’ per ottenere il diploma o continuare così tra delusioni di molti e pasticci?
 
Ad una prima disamina della proposta si direbbe che l’entrata in ospedale immediata che si offre ai giovani potrebbe avere tre rilevanti effetti immediati: impiegare subito i colleghi,  formarli allo stesso tempo,  e risolvere l’annoso problema del turnover negli ospedali. Questo se si guarda alla proposta, così come appare nel testo pubblicato,  nella sua immediatezza.
 
Ma analizzando la modalità emergono enormi, insormontabili problemi. Il primo è che si offre a coloro che non sono entrati non riuscendo in un test uguale per tutti (meno bravi? meno fortunati, meno capaci di affrontare un test scritto?) una via di impiego rapida con garanzia di successo finale (diploma di specializzazione e financo un futuro ‘posto’ di lavoro, visto che hanno lavorato nell’ospedale per 4 anni) migliore di coloro che invece sono entrati nelle Scuole.  Il secondo è che per farlo si prospetta l’assurdo posizionamento dei giovani medici in un comparto lavorativo che non li riguarda affatto, quello del personale sanitario.
 
A fronte di un lavoro di responsabilità maggiore si prospetta uno stipendio minore, levando valore alla laurea in Medicina che, per quanto bistrattata,  forma ancora oggi medici di grande qualità, purtroppo apprezzati più all’estero che in patria. E’ una deriva pericolosa che implica l’accettazione di un sottoimpiego, in un comparto  inappropriato.  Inutile dire che l’esposizione di uno laureato in formazione in un ospedale potrebbe complicare piuttosto che aiutare a rivolvere la carenza di personale in ospedale: faranno turni di guardia da soli? Visite ambulatoriali senza tutoraggio? Esami endoscopici, radiografie, manovre rianimative?  Perché se non inquadrati come medici dovrebbero assumerne le responsabilità in pieno? Quarto punto, per me importantissimo. Chi li formerà in questi anni? 
 
E va bene che la nostra Università è sempre sotto gli occhi dei media per ogni stortura che produce ma non mi sembra che in ospedale le cose vadano meglio. La valutazione di un primario, che sarà poi il responsabile dell’insegnamento dello ‘pseudospecializzando parallelo/pseudoinfermiere/jolly’  (visto che ruoterà tra i reparti) quale iter ha seguito all’inizio e quale valutazione in seguito? La valutazione di un professore è sotto gli occhi di tutti , non solo quando fa il concorso, ma quotidianamente.
 
Chi insegna non può fare a meno di imparare ad insegnare, ogni giorno, ogni lezione. Ci vuole tempo e tecnica, e ore di studio. Non basta  la pratica. Il saper fare è importantissimo, non c’è dubbio. Questo l’università lo sa. Per una Università di Medicina e Chirurgia con risorse praticamente ridotte a zero non è semplice dotarsi di superspecialisti in ogni disciplina. Un ricercatore junior che forse sarà ricercatore per soli 5 anni non avrà facilmente l’assistenza sanitaria, quindi non si sa se si riesca davvero a formarlo e se si, poi a tenerlo. Un ricercatore senior, quelli che hanno più chances di rimanere nelle Università come professori  è un miraggio per molti settori disciplinari, troppo costoso. Una chiamata di un professore associato o ordinario è poi un evento raro. Difficile ipotizzare un vero rinnovamento in questi anni di crisi.  
 
Ci lamentiamo che i nostri bravissimi laureati e specializzati se ne vanno perché meglio apprezzati all’estero. La fuga di cervelli è colpa dell’Università che appunto i loro cervelli sviluppa tanto bene da poter essere apprezzati fuori o di tutto quello che c’è dopo, che non sa accoglierli e valorizzarli?  Francamente non se ne può più di sentire in un Paese con tanti problemi tuonare contro l’Università, una istituzione che ha cercato in questi anni, sia pure talora goffamente, di darsi un rinnovamento con i test di ammissione al corso e alla specializzazione, con la abilitazione nazionale dei docenti. I loro curriculum ed i giudizi resi pubblici, sul sito del MIUR. Quale altra istituzione lo ha fatto?  E’ vero, c’è  stato un  errore nel primo test di specializzazione con gravi ricadute ma nessuno rimarca abbastanza che questo errore non è stata colpa dell’Università.  Usare questo motivo a supporto di paralleli, migliori corsi di formazione è ingiusto e pretestuoso.  
 
L’università pagherà sicuramente i suoi errori, come quello della valutazione del voto di laurea al test di ammissione a Medicina con un enorme surplus di studenti e un aggravio di lavoro e di costi. Ma quando si cambia la possibilità di errore c’è. Non per questo non si tenta il cambiamento.  Il nuovo viene necessariamente con disagi.
 
Tornando alla specializzazione, esiste la Rete Formativa che prevede per gli specializzandi soggiorni lavorativi negli ospedali che dovrebbero essere scelti in base alla presenza di grandi operatori che con la pratica aggiungano quello che la nostra martoriata Università oggi non può dare. L’Università ha dunque bisogno dell’ospedale. Ma per converso l’ospedale non può formare senza l’Università, non è ancora attrezzato a questo. E non sarebbe necessario che lo sia avendo a fianco l’Università. Non serve un percorso parallelo,  ma l’ integrazione di saperi nel binario protettivo per un giovane laureato di un percorso Universitario.
 
Qual è la ricetta? Intanto non fidarsi delle previsioni fatte per le quali si è profetizzato che già oggi avremmo avuto meno medici del necessario,  cosa che ha fatto aumentare il numero degli iscritti a Medicina anno dopo anno. Questi numeri sono oggi discussi e il Ministero dovrebbe fare una indagine accurata per avere dati suoi propri sui bisogni regione per regione, per poter poi ponderare di conseguenza l’accesso alla facoltà. Quindi, è possibile che si debba ridurre il numero dei laureati e usare ogni risorsa per adeguare il numero dei posti nelle Scuole al numero dei laureati.
Bisogna guardare alla specializzazione non come una spesa da sostenere ma come un investimento a risultato garantito: buoni medici, buona sanità, cioè alla fine controllo della spesa.  
 
Per farlo è fondamentale attuare i previsti controlli sulle Scuole di Specializzazione e sulla loro Rete Formativa con serietà e rigore. Così si rientra nelle medie europee, così si fa  buona formazione e alla fine anche un buon SSN.
 
Carolina Ciacci, professore universitario e OmCeO (Napoli)

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