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Giovedì 18 DICEMBRE 2014
Il lavoro è l’architrave su cui poggia tutto il Ssn. Che succede se inizia a cedere?
Il lavoro sino ad ora ha retto il sistema nel suo complesso nonostante tutto. Ma ha subito e continua a subire limitazioni su tutti fronti. Ed è lecito temere che se quest’architrave dovesse cedere si potrebbero determinare delle discontinuità, quelle che i matematici definiscono “catastrofi”. Che fare quindi?
Domani si svolgerà a Torino un convegno di grande interesse organizzato dall’Anaao Assomed: “Il mestiere delle cure. La trasformazione dei luoghi di lavoro e del lavoro in Sanità”. In questo convegno avrei dovuto e voluto discutere di quel particolare conflitto che, a quanto pare, anche la legge di stabilità intende confermare e che in sanità contrappone il costo del lavoro al suo valore. Mio malgrado non potrò esserci per cui mi limiterò a scrivere qualche riflessione.
Con questo convegno l’Anaoo ha voluto esprimere e raccogliere un allarme, che riguarda il lavoro medico sanitario in tutte le sue accezioni ma anche cominciare a definire le contromisure necessarie perché l’allarme diventi sempre più improbabile. Se consideriamo il lavoro come se fosse un architrave allora dobbiamo dire che il lavoro sino ad ora ha retto il sistema nel suo complesso nonostante tutto. Tale architrave a sue spese ha compensato come ha potuto e non senza qualche cedimento e qualche danno collaterale, tutti i tipi di limitazioni ai quali sono stati sino ad ora sottoposti i servizi. Il lavoro ha subito e continua a subire limitazioni sugli organici, alla sua autonomia, ai suoi valori retributivi, ai suoi valori deontologici, demansionamenti, burocratizzazioni, precarizzazione, disoccupazione, conflitti strumentali di competenze, ecc.
Ma se l’architrave cede perché sovraccaricato di “op-pressioni” allora è lecito temere che il suo cedimento potrebbe determinare delle discontinuità, quelle che i matematici definiscono “catastrofi”. La “catastrofe” quindi non sarebbe il crollo della casa ma un impoverimento del lavoro quale “causa necessaria” a garantire con le prassi professionali la costruzione concreta dei diritti dei malati. I diritti in sanità non sono fatti d’aria ma sono beni sostanziali fatti da professioni organizzate in servizi per curare e assistere. Se attraverso il lavoro si colpiscono le prassi professionali è attraverso le prassi che si colpiscono i diritti, quindi una “deprivazione” che causa una “depravazione” . Lacan ha scritto che l’ansia è l’unica emozione che non mente perché testimonia la vicinanza con la realtà. La mia “ansia sincera” è che se il lavoro nel tempo non riuscirà più a reggere la deprivazione della sanità i diritti saranno silenziosamente sopraffatti. A confermare la mia ansia sono proprio i continui allarmi di Anaoo e soprattutto di “Anaoo giovani “che in modo quasi martellante ci prefigurano scenari circa il mercato del lavoro dei medici, molto seri che sbaglieremmo a sottovalutare.
Non ultimo quello sulla legge di stabilità, dal momento che si è programmato fino al 2020 all’insegna della flessibilitàuna costante riduzione del personale dei servizi. L’Anaoo non esita a parlare di “attacco gravissimo all’occupazione del personale del Ssn”. A questo si deve aggiungere l’analisi spietata e lucida della Fnomceo sulla crisi del sistema formativo medico. Se il lavoro lo consideriamo quale principale “capitale” del sistema pubblico e se il lavoro si trova di fronte a politiche che lo stanno svalutando in tutti modi, allora si comprende come la sua debolezza interna sul piano della qualità professionale e la sua precarietà esterna sul piano delle quantità professionali, diventi un problema politico di primaria grandezza. Se questa debolezza e questa precarietà non sono recuperate in tempo il rischio è che si affermi una devastante controriforma. Il lavoro suo malgrado oggi si trova a svolgere la funzione di difendere il sistema pubblico dalla sua possibile disgregazione.
E’ da questa “ansia sincera” che in questi anni sono nate le mie proposte, quelle che spesso sono considerate non normali tesi riformatrici di qualcuno che in vario modo e a vario titolo si occupa da anni di sanità pubblica, ma il più delle volte delle “provocazioni” un po’ visionarie di chi si prende il lusso di trascendere con le sue teorie la realtà puzzolente nella quale viviamo. In questa realtà ci sto dentro fino al collo come voi e anch’io sento la puzza che sente l’Anaoo, la Fnomceo e l’intero popolo della sanità. Ho già scritto su questo giornale che la speranza di un pensatore è quella di far pensare, convinto come sono che pensare sia il primo passo per fare. Ho anche aggiunto che nella situazione in cui versa il nostro lavoro , senza un pensiero riformatore si può stare con i piedi a terra “senza sapere cosa fare perché non si sa cosa pensare di fare”.Per me dobbiamo prenderci la responsabilità di pensare cosa fare, cioè di tirare fuori un’altra idea di lavoro che rispetto alla realtà che lo sta svalutando sia sufficientemente “sovversiva” da non farsi svalutare . Chiarisco che “sovversivo” per me è parola diversa da “eversivo”. Per me si tratta di mettere a punto una idea di lavoro che rifiuta la sua svalutazione senza rifiutare la realtà in cui esso si trova quindi che si apre al rinnovamento profondo e radicale per rispondere in modo riformatore alle sfide del nostro tempo. Oggi dove tutti si dichiarano riformatori ,niente è più sovversivo di un vero pensiero riformatore.
Le mie proposte sono note(“autore”,“shareholder”,reticolo professionale ,professional agreement, ecc)e non le ripeterò, Mi limito a ricordare che sono anni che da una parte lavoro sul ripensamento della medicina per rispondere alla crisi della formazione di cui parla la Fnomceo e dall’altra sul ripensamento del concetto di lavoro. Oggi mi limiterei a ribadire circa la questione del lavoro le tre idee di fondo del mio ragionamento:
· una proposta “sovversiva” circa il lavoro dovrebbe avere come scopo quello di produrre un suo nuovo valore aggiunto che risponda alle esigenze dei diritti delle persone e a quelle non meno importanti della spesa pubblica ma anche a quello ancor non meno importanti delle legittime ambizioni di chi lavora a partire dal salario. Oggi è irrealistico rivendicare salario, (frattaglie a parte), se la richiesta si ripercuote semplicemente sulla crescita della spesa pubblica senza alcuna contropartita .. se non vogliamo morire di blocchi salariali l’unica strada realistica è lavorare sulle contropartite da offrire alla spesa pubblica;
· per accrescere il valore aggiunto del lavoro si tratta di usare il lavoro come il principale motore per una seria spending review bottom/up cioè per liberare risorse superando regressività culturali, sprechi, diseconomie, anti economie;
· per fare ciò bisogna far leva sullo scambio autonomia/ responsabilità/ esiti quindi andare oltre lo statuto giuridico del lavoro dipendente o convenzionato e “inventare” una nuova specie di “operatore azionista” per il quale il lavoro è un capitale da valorizzare il più possibile;
· il lavoro quale capitale sarà retribuito attraverso dei professional agreement cioè contrattando delle transazioni tra professione e management.
A questo punto a me interessa porre un domanda alla quale sino ad ora nessuno ha saputo dare una risposta e dare una risposta. La domanda è: come dare in questa realtà sociale e finanziaria un prezzo al nostro lavoro che da una parte per sua natura non avrebbe un prezzo perché esso ha eticamente e economicamente un valore incommensurabile dal momento che fa sopravvivere le persone alle loro malattie; e dall’altra parte è comunque deprezzato dalle politiche restrittive in atto che lo riducono ad un puro costo da comprimere?
Per me quindi si tratta di trovare una mediazione tra valore del lavoro e costo del lavoro, mediazione a mio parere impossibile da trovarsi a lavoro e a strumenti contrattuali invarianti, men che mai senza includere nel suo valore aggiunto i problemi della spesa. Le politiche del governo contrattualmente vanno quindi sfidate sul loro terreno che è quello della crescita, della riqualificazione della spesa pubblica, del rigore e del risanamento e della produzione di ricchezza. Alla domanda “perché il nostro lavoro è un valore” e non solo un costo, rispondo “perché il nostro lavoro guarisce le malattie delle persone e per quota parte quelle del paese”. In questa situazione economica se il nostro lavoro si limitasse a guarire solo le malattie delle persone in un paese che in nome della sostenibilità antepone il limite di spesa al diritto alla salute, sarebbe un costo relativamente insostenibile per cui anche per questo governo, sarebbe giustificato ridurlo continuando a bloccare i salari e il turn over e a depotenziare i servizi. Ma se il lavoro fosse anche una soluzione per i problemi finanziari della sanità/paese il discorso cambierebbe e non avrebbe più senso bloccarlo e impoverirlo.
Il vero guaio di questa proposta non è il suo grado di fattibilità e di plausibilità che per quello che mi riguarda è tecnicamente del tutto fattibile, ma è quello da me definito il problema del “riformista che non c’è”. Le Regioni sono arrivate al paradosso di proporre al governo una riduzione del Fsn ,esse non sanno fare altro che tassare i cittadini e tagliare sul lavoro pur di non mettere le mani nelle loro diseconomie, abbiamo aziende concepite come se i lavoratori fossero delle lavatrici programmabili a piacimento, abbiamo un ministero della salute politicamente e culturalmente inconsistente e oltre a ciò abbiamo i nostri limiti ,le nostre invarianze ,le nostre abitudini cognitive...pur essendo orfani del famoso consociativismo continuiamo a coltivare ma ormai senza interlocutori i nostri vecchi vizi consociativi. Quindi il problema politico è che pur disponendo di una proposta riformatrice ci manca il riformatore con il quale negoziarla. Ho visto nei giorni seguenti scatenarsi un putiferio di interventi sull’ex art. 22 del Patto per la Salute al quale mi pare che l’Anaao si sia pudicamente sottratta ..e che da la misura della natura prevalentemente burocratica del nostro sindacalismo...che non si accorge di fare come quel famoso cameriere che mentre la nave affondava continuava a lucidare gli ottoni.
Che fare quindi? Prima di tutto si tratta di prendere coscienza della posta in gioco ,cioè di non tirare a campare, di capire che il gioco definito “contrattazione” è cambiato, e che dobbiamo attrezzarci costruendo piano piano un pensiero riformatore per costruire un contesto il più favorevole ad una nuova proposta di lavoro. Rilancio quindi la mia idea di disobbedienza deontologica perché credo che in sanità sia in atto quello che Zizek ha definito “l’addomesticamento etico” cioè un etica che per essere surrettiziamente responsabile ormai è rassegnata a subire delle esclusioni valoriali.
La professione medica non può incorporare semplicemente nel proprio codice le logiche economicistiche di una stupida quanto ottusa politica sanitaria, perché ha il dovere di garantire con una proposta di altra deontologia una medicina eticamente non addomesticabile. Infine di usarci in modo diverso...siamo tanti ma dobbiamo organizzarci e mobilitarci in altri modi per avere migliori e più efficaci relazioni con il mondo.
Ivan Cavicchi
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