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Martedì 13 MAGGIO 2014
Tumore alla vescica. La diagnosi arriva con un “fascio di luce”
Metodiche endoscopiche innovative che sfruttano luci particolari possono migliorare il tasso diagnostico anche nei tumori a più alto rischio grazie ad una precisa visualizzazione dei macro e micro focolai di malattia. L’indicazione arriva dalla Società italiana di urologia (Siu). Colpiti ogni anno 27mila italiani.
È la luce a fare la differenza nella diagnosi del tumore della vescica. Grazie alle potenzialità diagnostiche della Photo Dynamic Diagnosis (Pdd) - metodica che sfrutta l’interazione tra una luce blu a specifica lunghezza d’onda e una sostanza cromofora che viene accumulata, tramite inoculazione, nel tessuto bersaglio malato - è possibile garantire accuratezza chirurgica e resezione completa di malattia anche nei tumori più complessi.
Un risultato importante se si considera che, solo in Italia, ogni anno vengono diagnosticati mediamente 27 mila casi (il 7.4% di tutte le nuove diagnosi), la stragrande maggioranza interessano uomini, e che per questa patologia non esistono marcatori biologici in grado di consentire un’adeguata prevenzione. Diviene quindi fondamentale poter disporre di strumenti di indagine sempre più perfezionati, efficaci ed efficienti, che consentano di abbattere i tassi della malattia.
A puntare i riflettori sulla nuova metodica è la Società Italiana di Urologia (Siu) nel corso di un incontro dedicato alla stampa.
Come spiegano gli esperti, l’obiettivo da raggiungere grazie alla Pdd, le cui caratteristiche di accuratezza la rendono metodica più affidabile rispetto alla tradizionale cistoscopia, è: migliorare ulteriormente la sopravvivenza media a 5 anni (oggi al 77% fra gli uomini e al 72% fra le donne), e ridurre la mortalità che ha già subito un decremento di -1,6% annuo nella popolazione maschile e -2,6% annuo in quella femminile. Resta ancora parzialmente da risolvere il problema delle false fluorescenze (falsi negativi), evitabile però programmando la Pdd distanziata da terapie o da altri interventi diagnostici.
“Il tumore della vescica – sottolinea Giuseppe Martorana, Presidente della Siu e Direttore della Clinica Urologica dell’Università di Bologna – rappresenta il 20% di tutta la patologia globalmente trattata (oncologica e non oncologica) ed il 50% della patologia uro-oncologica. Non tutti i tumori della vescica, fortunatamente, sono a cattiva prognosi: l’80% sono ad andamento benigno, le neoplasie cosiddette ‘superficiali’, e di questi solo una piccola parte è destinata ad evoluzione maligna. Il restante 20% invece sono forme maligne sin dall’inizio, le cosiddette forme ‘infiltranti’, che impongono un trattamento chirurgico radicale. Nonostante questi numeri elevati e il forte impatto della malattia, purtroppo per il tumore della vescica non esiste (e non è possibile) la prevenzione poiché al momento non vi sono marcatori biologici che possono consentire l’istituzione di uno screening di massa”.
Infatti le tracce di sangue nelle urine (microematuria) non sono un test affidabile e direttamente riferibile a un tumore della vescica in quanto riconducibili a svariate altre problematiche urologiche (p.e. una cistite o la presenza di un calcolo renale) e non. Diverso è invece il caso di urine rosse (macroematuria monosintomatica), che capitano all’improvviso, anche una sola volta, in pieno benessere.
“In questi casi – aggiunge Martorana – è fondamentale rivolgersi subito al proprio medico di famiglia e a uno specialista per accertarne tempestivamente la causa. In assenza di un’adeguata prevenzione diviene quindi fondamentale una sensibilizzazione efficace e capillare che inviti la popolazione a non trascurare la comparsa di sangue nelle urine, quale possibile indice di una problematica seria. Infatti, se affrontato in tempo, il tumore superficiale della vescica può essere trattato meglio, in maniera più radicale, esponendolo meno alla possibilità di recidive”.
E un risultato, quello di un migliore trattamento in fase iniziale oggi possibile grazie anche a strumenti diagnostici sempre più precisi. Quale ad esempio la Pdd.
“Questa metodica – spiega Vincenzo Mirone, Professore Ordinario di Urologia dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” – aiuta a discernere meglio fra benignità e malignità di una lesione e a scoprire focolai di forme preneoplastiche (CIS) invisibili ad occhio nudo. Si tratta di una metodica poco invasiva, a cui sono candidati i pazienti sottoposti a un intervento chirurgico endoscopico. Mezz’ora prima dell’ingresso in sala operatoria, sfruttando il catetere di cui di norma il paziente è già portatore, viene inoculata nella vescica (che deve essere mantenuta piena) una sostanza cromofora di cui si impregnano le muscose”.
Una volta stimolata con una illuminazione a luce blu, la sostanza emette una fluorescenza nello spettro del rosso che consente di discriminare, nell’organo vescicale, le cellule sane da quelle tumorali. “La sostanza – precisa Martorana – sarà in grado di evidenziare sulla mucosa vescicale delle microalterazioni neoplastiche, anche infinitamente piccole, le quali sarebbero diversamente sfuggite all’attenzione del chirurgo. È dimostrato, in letteratura, che la Pdd perfeziona la diagnosi, aumenta l’identificazione di neoplasie ad alto rischio in rapporto alla cistoscopia con luce bianca, finora utilizzata con maggior frequenza. Va detto però che la Pdd consente solo il riconoscimento macroscopico di alcune lesioni, non fa diagnosi. Questa deve essere accertata da una biopsia eseguita sul pezzo di tessuto prelevato grazie alla Pdd”.
Per le sue qualità e potenzialità diagnostica, la Pdd si qualifica pertanto come metodica indicata in caso di sospetto tumore ad alto grado, ossia con ricerca di cellule anomale nelle urine (citologia urinaria) positiva, di tumore non muscolo invasivo (quindi in fase iniziale) o multifocale, ma anche in presenza di sangue persistente nelle urine a fronte dell’assenza di cellule anomale nelle stesse, e in particolari forme di tumore (carcinoma localizzato, ossia in situ, e/o di alto grado in cui non è avvenuta l’asportazione della vescica).
“Appena scoperto un tumore – conclude Mirone – anche grazie a queste nuove metodiche diagnostiche, un banale intervento endoscopico, vale a dire non aprendo l’addome ma agendo attraverso l’uretra (trans-uretrale), può risolvere la gran parte di questa malattia in maniera definitiva, non invasiva, ma senza perdere in efficacia. Ovvero preservando la vescica senza tuttavia permettere la progressione di malattia. In assenza di marcatori diagnostici che consentono la prevenzione del tumore della vescica, aspetto su cui la ricerca sta lavorando, l’importanza deve essere sempre più rivolta allo stile di vita e all’attenzione ai primi possibili segnali di malattia”.
I numeri del tumore alla vescica. Ogni anno, in Italia, vengono diagnosticati mediamente oltre 70 casi ogni 100mila uomini e all’incirca 16 ogni 100mila donne. Vale a dire che il rischio di diagnosi di tumore della vescica nel corso della vita compresa fra 0 e 74 anni, è superiore al 41% fra gli uomini (1 caso ogni 24 uomini) e al 7% fra le donne (1 caso ogni 140 donne). Solo nel 2013, in Italia, le nuove diagnosi sono state all’incirca 27.000 (il 7.4% di tutti i nuovi casi) ma si stima che gli oltre 24 mila casi del 2011, supereranno i 30.300 nel 2020. Numeri, dunque, elevati non imputabili però solo alla difficoltà di prevenire adeguatamente la malattia.
Fattori di rischio. Spesso si trascurano anche i fattori di rischio che ne possono aumentare l’insorgenza: primo fra tutti il fumo di sigaretta che aumenta di ben 2/3 le possibilità di incorrere in un tumore della vescica nel maschio e di 1/3 nella femmina, fino a moltiplicare di 4-5 volte la possibilità di sviluppare la malattia rispetto a un non-fumatore. A questo si aggiungono l’esposizione ad alcuni agenti tossici – anilina e amine aromatiche (benzidina, 2-naftilamina) – presenti nei coloranti e nelle vernici (più a rischio saranno i lavoratori che maneggiano quotidianamente queste sostanze), l’assunzione di analgesici, in particolare la fenacetina che aumenta il rischio di tossicità (meglio usare il paracetamolo) e l’eccesso di caffè, quest’ultimo considerato però come fattore di rischio potenziale.
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