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Venerdì 06 DICEMBRE 2013
Colpa medica e legge Balduzzi. Corte Costituzionale respinge ricorso illegittimità
La Corte ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso contro l'art.3 della legge dell'ex ministro della Salute riguardante la responsabilità professionale. Il ricorrente ha infatti presentato "un'insufficiente descrizione della fattispecie concreta" che ha impedito la "necessaria valutazione della questione di legittimità". L'ORDINANZA.
La Corte Costituzionale, nell'ordinanza n. 295, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Milano, dell’articolo 3 della legge 189/2012 (legge Balduzzi) riguardante la colpa medica. L’oggetto del contendere riguardava, in particolare, il comma 1 dell’articolo 3 che recitava: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”.
Per i giudici di Milano, si legge nell'Ordinanza, rimarrebbe “assolutamente incerto” anzitutto, se, con la formula “non risponde penalmente per colpa lieve”, la norma escluda che versi in colpa lieve il sanitario attenutosi alle linee guida e alle buone pratiche, o preveda invece una causa di non punibilità in senso stretto a favore del sanitario cui pure sia addebitabile una colpa lieve. L’equivocità della locuzione in questione, non superabile tramite “una mera attività ermeneutica”, renderebbe il dato normativo impreciso, ponendolo in contrasto con i principi di ragionevolezza e di tassatività della fattispecie penale (artt. 3 e 25, secondo comma, Cost.), nonché con la funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.).
Il rimettente sottolineava inoltre, ricorda ancora l'Ordinanza, come, nonostante la ratio della non punibilità dell’operatore sanitario da essa sancita, risiederebbe nell’intento di contrastare la medicina difensiva, la soluzione concretamente adottata dal legislatore tradirebbe, tuttavia, questa finalità, rischiando “di burocratizzare le scelte del medico e quindi di avvilire il progresso scientifico”: essa “premierebbe”, infatti, coloro che prestano una “acritica e rassicurante adesione” alle linee guida e alle buone pratiche già codificate, penalizzando invece chi, con una pari dignità scientifica, se ne discosta, con l’effetto di bloccare l’evoluzione del pensiero scientifico e la sperimentazione clinica.
La disposizione denunciata comprometterebbe, inoltre, per il giudice a quo, la tutela giudiziaria della persona offesa, la quale, nei casi previsti dalla disposizione stessa, potrebbe agire solo in sede civile, vedendosi così privata dei più ampi strumenti di tutela offerti dal processo penale, diversamente da quanto avviene in rapporto ai reati commessi con colpa lieve da soggetti non esercenti la professione sanitaria. A questo si aggiunge che, nell’ipotesi in cui i sanitari fossero dipendenti pubblici, essi fruirebbero, in violazione degli artt. 3 e 28 Cost., di un trattamento privilegiato rispetto a quello riservato a tutti gli altri dipendenti pubblici, i quali, a parità di condotta lievemente colposa lesiva dei medesimi beni giuridici, continuano invece a rispondere penalmente.
Ulteriore vulnus del principio di tassatività sarebbe, infine, secondo i giudici di Milano che hanno portato la questione all'attenzione della Consulta, il riferimento alle “linee guida” e alle “buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”, delle quali non vengono precisate le fonti, le modalità di produzione e le procedure di diffusione, con il risultato di rendere indeterminabile l’area della non punibilità.
Questi rilievi non sono stati però sufficienti a convincere la Corte Costituzionale poiché, si legge nell'Ordinanza, "il giudice a quo ha omesso di descrivere compiutamente la fattispecie concreta sottoposta al suo giudizio e, conseguentemente, di fornire una adeguata motivazione in ordine alla rilevanza della questione". Il tribunale di Milano, si legge ancora nell'Ordinanza, "si limita in effetti a riferire di essere investito del processo penale nei confronti di alcuni operatori sanitari, imputati del reato di lesioni personali colpose gravi, cagionate ad una paziente con colpa generica e per violazione dell’arte medica".
Per la Corte Costituzionale, inoltre, "il rimettente non specifica la natura dell’evento lesivo, le modalità con le quali esso sarebbe stato causato e il grado della colpa ascrivibile agli imputati; ma, soprattutto, non precisa se, nell’occasione, i medici si siano attenuti – o, quantomeno, se sia sorta questione in ordine al fatto che essi si siano attenuti – a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica proprie del contesto di riferimento, così che possa venire effettivamente in discussione l’applicabilità della norma censurata".
Viene inoltre evidenziato dalla Consulta come la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto – in accordo con la dottrina maggioritaria – che “la limitazione di responsabilità prevista dalla norma censurata venga in rilievo solo in rapporto all’addebito di imperizia, giacché le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia: non, dunque, quando all’esercente la professione sanitaria sia ascrivibile, sul piano della colpa, un comportamento negligente o imprudente”.
Dunque, l’insufficiente descrizione della fattispecie concreta “impedisce alla Corte la necessaria verifica della rilevanza della questione, affermata dal rimettente in termini meramente astratti e apodittici, e le rilevate manchevolezze dell’ordinanza di rimessione comportano, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 99 del 2013, n. 314 e n. 268 del 2012), la manifesta inammissibilità della questione”.
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