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Giovedì 24 OTTOBRE 2013
Parkinson. Una palestra per prendere a pugni la malattia

Tutti gli iscritti hanno la condizione, seppure in stadi diversi, e tutti si sforzano di combatterla. Questo quanto accade a Indianapolis e in altre cinque palestre negli Stati Uniti, dove il Parkinson si combatte a colpi di boxe: i pazienti hanno vedono così rallentare la patologia, e migliora la qualità della loro vita.

Immaginate una “classe” di pugili, concentrata e motivata. Ora immaginate una classe di pugili che oltre alla concentrazione e alla motivazione abbiano una stessa caratteristica – a prescindere da sesso, età, etnia e stazza – quella di essere affetti morbo di Parkinson. Ora immaginate 16 classi diverse, composte in tutto da 125 iscritti di entrambi i sessi. Se ci riuscite, probabilmente state immaginando qualcosa di molto simile a quello che accade nella palestra di Rock Steady Boxing, fondata nel 2006 da Scott C. Newman, ex pubblico ministero di Marion County in Florida, a cui la malattia è stata diagnosticata a quarant'anni. Oggi la palestra va alla grande, si basa quasi esclusivamente sulle donazioni dei privati grazie alle quali sono nate altre cinque filiali oltre alla prima ad Indianapolis e prevede gruppi di pazienti divisi per gravità dei sintomi, anche se per tutti i livelli l'obiettivo è unico: rallentare la progressione della patologia, a partire dai sintomi fisici come tremori, rigidità muscolare, perdita di equilibrio, per arrivare a quelli cognitivi e psicologici, semplicemente con l'attività fisica ispirata a quella che fanno i veri boxeur per prepararsi al ring (vedi video a fondo pagina).
 
Una palestra, insomma, che da una parte aiuta i pazienti per quanto riguarda l'agilità, la velocità, la resistenza, la coordinazione e la funzionalità dei sensi, ma che dall'altra dà loro speranza che è possibile avere una buona qualità della vita anche quando si ha una diagnosi di Parkinson. “A volte i pazienti dopo essere stati diagnosticati con questa malattia neurodegenerativa si scoraggiano molto, perché sanno che è progressiva e quindi hanno paura che con il peggioramento delle loro condizioni arriveranno a non controllare più il loro organismo. Ed è facile che questa predisposizione negativa abbia ripercussioni anche sull'esito del decorso”, ha speigato Elizabeth Zauber, neurologa che si trova nel board di Rock Steady. “Ma quando arrivano da noi e realizzano che ci sono persone che presentano la loro stessa patologia ma che riescono a fare qualcosa di pratico per stare meglio e rallentarne il corso, subito non vedono più tutto nero, non come prima”. E così l'avversario, più che quello che ci si trova davanti sul ring, diventa la malattia, e quindi la grinta e l'adrenalina si riversano tutte contro di lei.

Ma l'effetto non è certo solo psicologico. Già a partire dagli anni Ottanta e Novanta, numerosi studi hanno dimostrato che un programma di esercizi fisici rigoroso potesse avere un impatto favorevole sulle capacità di movimento, sulla postura dei pazienti e in ultima analisi sulla loro vita quotidiana. Studi più recenti hanno poi dimostrato che un regime sportivo di questo tipo potesse in qualche modo avere un effetto neuroprotettivo, ovvero rallentare realmente la progressione della malattia.
 
E in questo senso il pugilato è un ottima attività, per via dell'ampio range di movimenti diversi che vengono fatti in allenamento. “Vedo continuamente pazienti che cominciano a fare questo sport e subito iniziano a 'funzionare' meglio”, ha detto ancora Zauber. “Migliorano l'equilibrio, ma non solo: dormono meglio, sono più positivi e hanno più energia”.

Senza contare tutto ciò che deriva dallo stare in gruppo. “È come se fosse anche un gruppo di sostegno”, ha speigato Joyce Johnson, direttore esecutivo dell'organizzazione. “Si trovano – probabilmente per la prima volta dalla diagnosi – in un luogo dove tutti comprendono i sintomi della malattia e allo stesso tempo in cui nessuno si tira indietro dal combatterli. E questa è la vittoria maggiore".
 

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