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Mercoledì 21 AGOSTO 2013
La sanità tra il “fare” e il “non fare”
Durata governo e sanità legati a filo doppio. Ma, anche se è un paradosso, sono convinto che seppur risolvendo ad uno ad uno ogni singolo problema sul tappeto, le sorti della sanità pubblica, con questo governo e con le sue politiche deboli, sostanzialmente non cambierebbero. Cioè ho la sensazione che il “fare” e il “non fare” si equivalgano
La battuta è fin troppo facile: se i “destini incrociati” della sanità sono quelli che descrive Fassari non ci resta che “incrociare le dita” e affidarci alla scaramanzia. La penuria di risorse certo,ma soprattutto le diverse priorità di spesa,dentro le larghe intese,allocano svantaggi e vantaggi auto riferiti alle singole esigenze politiche degli schieramenti non a quelle reali del paese.
E' tutto da dimostrare che l'Imu, ma non solo, sia una priorità rispetto alla tutela della salute. I “destini incrociati” della sanità non dipendono tanto da oggettive e innegabili difficoltà finanziarie della crisi, ma a un tempo sia da limiti politici intrinseci alla formula del “power sharing”(consociativismo altrimenti detto “governissimo” “larghe intese”), sia da un pensiero riformatore che non c'è. Quindi ai conflitti interni al governo su come spendere i soldi si aggiungono le “non soluzioni” che potrebbero esserci ove vi fosse un pensiero riformatore.
E' vero che Saccomanni con la sanità fa lo spilorcio (come tutti i ministri dell'Economia che l'hanno preceduto),ma è altrettanto vero che abbiamo una ministra della Salute che mentre il sistema pubblico geme di privazioni, regressioni, corruzioni, anti economicità, malgoverno, si occupa di ordini professionali, di abolizione dei certificati inutili, di fumo nocivo...come un perfetto funzionario ministeriale collocabile tra Dostoevskij e Fantozzi. Le Regioni meglio non parlarne. A parte battere cassa le loro proposte innovative sono logore quanto le loro lagnanze.
Ma i “destini incrociati” della sanità mi hanno colpito non tanto per il censimento puntuale dei problemi (Patto per la salute,coperture finanziarie, nuova spending review, blocco dei contratti, ordini professionali, obblighi assicurativi, ecc.) ma perché mi han fatto capire che anche risolvendo ad uno ad uno ogni singolo problema sul tappeto, le sorti della sanità pubblica, con questo governo e con le sue politiche deboli, sostanzialmente non cambierebbero. Cioè ho la sensazione che il “fare” e il “non fare” si equivalgano.
Si tratta evidentemente di un paradosso, so da me che gli esiti del “fare” e del “non fare” sono tecnicamente diversi ma so anche che essi, soprattutto se superficiali, non sono risolutivi specialmente nei confronti dei problemi strutturali del sistema sanitario. “Fare” o “non fare” un Patto per la salute, ad esempio, per come sono congegnati questi accordi finanziari, può dare un po’di ossigeno alle casse delle Regioni ma in alcun modo sarà determinante a rimuovere le grandi e innegabili contraddizioni della sanità. Per rendersene conto basta leggersi i documenti preparatori che le Regioni hanno predisposto proprio per il Patto. Esse al di là delle specifiche questioni di merito sono terribilmente sempre le stesse da anni. Non bisogna essere necessariamente buddisti per comprendere che ogni sistema complesso (e la sanità lo è in modo indicibile) è per sua natura impermanente, cioè trasmutabile e quindi riformabile.
Al contrario per le Regioni tutto sembra essere permanente e intrasmutabile (ospedali,territorio,cure primarie,lea, ecc.) cioè quello che esiste può unicamente essere ri-organizzato nella sua permanenza. L'assenza di un pensiero riformatore vero quindi è il vero limite che annulla la differenza tecnica tra il “fare” e il “non fare” e che condanna la sanità ad essere permanentemente un problema insolubile.
Convinto e non da ora di queste cose ammetto di essere stato suggestionato dalla notizia,riportata ieri da QS,del Friuli Venezia Giulia che a sentire la sua governatrice Giulia Serracchiani, si starebbe apprestando ad abolire una riforma (la riforma a cui si allude in realtà era una riorganizzazione fatta da accorpamenti e separazioni) e a farne un'altra addirittura“generale del settore”. Tutto questo in ragione del fatto che “è cambiato il mondo”, cioè in ragione di quella impermanenza di cui parlavo prima. Invece di partire “dall'architettura istituzionale del sistema” dice la governatrice del Friuli, si deve partire “dall'analisi dei bisogni dei cittadini". Non conosco il progetto e la strategia che c'è dietro a questa riforma dichiarata e né mi faccio illusioni (definire un pensiero riformatore in sanità non è proprio una passeggiata e meno che mai una questione tecnica) ma mi auguro che sia veramente una riforma, quindi un cambiamento, e non semplicemente una contro-organizzazione.
Ammetto però che la parola “riforma” oggi declassata a marginalismo sopra tutto da Regioni leader come Toscana, Emilia Romagna, Veneto (il famoso paradosso del miglioramento senza cambiamento) quanto meno mi ha fatto battere il cuore perché comunque sta a confermare, che il problema dei “destini incrociati” non si risolve nécon le solite minestre riscaldate delle Regioni e nétanto meno incrociando le dita.
Quello che sta accadendo alla sanità sa di destino ma senza esserlo. Riformismo e fatalismo sono antinomie .
Auguri di buon lavoro al Friuli Venezia Giulia...mi permetto di rivolgere alla sua governatrice, un solo piccolo suggerimento:distingua “cambiamento” da “riorganizzazione”. Il primo contiene la seconda ma la seconda almeno da un bel po’di tempo, non ha mai contenuto il primo.
Ivan Cavicchi
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