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Sabato 10 AGOSTO 2013
Donne in medicina. Essere curanti in un corpo di donna, con voce di donna

Un obiettivo ancora lontano. Anche per questo già oggi dobbiamo immaginare un lavoro vicino alla vita di tutti, curanti e curati, donne e uomini a partire dall’intero impianto educativo in Medicina, come in quello organizzativo-gestionale delle strutture dove questa si pratica

Intervengo nel dibattito sollecitato su Donne, Medicina e Genere, in ritardo a seguito della improvvisa scomparsa di una collega che vorrei ricordare per l' impegno proprio su queste tematiche.  E lo faccio proprio a partire dall'ultimo intervento di Cavicchi: ”Molte sono le donne che praticano nonostante tutto una “medicina eccentrica” sempre più sono le donne che entrano in Parlamento, nel governo, nelle Regioni, nelle aziende , ma che non sono per niente “eccentriche “. In futuro credo che questa sia la contraddizione da rimuovere.”
 
Nell'articolo precedente, quando Cavicchi si chiede “a quale genere appartiene la donna che è malata di cancro?” affronta il problema dei problemi. Affrontando la disparità di genere tra donne e pazienti viene introdotto, come sottolinea lo stesso autore, il genere in un ambito in cui era stato accuratamente tenuto fuori. Non è soltanto il malato ad essere considerato come genere neutro, ma neutra è tutta la visione del sistema di cure. O meglio: la neutralità (del paziente, della manifestazione della malattia, della cura - farmaci, dosaggi, sperimentazioni farmacologiche, effetti collaterali-) è identificata  con il maschio bianco di 70 kg. A questo modello, alla sua parzialità ed incorrettezza, ha cominciato de qualche decennio a riflettere la medicina di genere,dopo gli importanti studi sulla diversificazione di sintomi e malattie anche  tra maschi e femmine (Donoghue G.D, HoffmanE., Magrane D., A New and Wider View- Women's Health as a catalyst for reform of medical Education- Changing perspective on sex and gender in medical education, Academic Medicine, vol.75, n.11, November 2000)..(Gender and sex: issues in medical education, Toine Lagro-Janssen,GMS Zeittschrift fur Medizische Ausbildung 2012, vol.27, ISSN 1860-3572).
 
Quello che però è ancora poco studiato, e che in qualche modo riporta in ballo il sasso lanciato da Cavicchi, è che “la pretesa...di considerare il malato come genere neutro, equipollente al malato come genere umano” permea tutto l'universo in cui le cure si studiano, si praticano, si insegnano. Mentre  non possiamo più a lungo “insegnare la visione di una cellula come di una (generica) cellula o di una persona come di un normale individuo neutro per sesso e genere", la “sameness as the norm” viene imposta a giovani liceali cui era stata fatta appena intravvedere l'esistenza della differenza : mutuata dallo studio dell'arte, della letteratura, dagli studi dei filosofi e delle filosofe. Gli studi di Medicina, viceversa, richiedono, mutatis mutandis, ancora come nel Medio Evo, una esistenza assoluta dal mondo e una immersione acritica ed asessuata  nella Scienza. Per sei anni uno stuolo di donne (il 70%) e di   uomini (il rimanente 30%) verranno avviati ad una Medicina dotata delle più sofisticate tecnologie che però si insegna in un clima culturale protonovecentesco, quando alle donne non era permesso iscriversi all’Università, fare il medico (e neanche votare).
 
Quando noi clinici le incontriamo al V Anno (Corso Integrato di Ginecologia e Ostetricia), le giovani donne quasi-medico ancora non sanno che cos'è il perineo, struttura muscolo fasciale di sostegno sede  delle funzioni primordiali legate alla continuazione della vita (minzione, defecazione, concepimento, passaggio del feto alla nascita, ma anche luogo di istinti di sopravvivenza, paura, piacere, ecc), e della loro peculiarità ontologica, direbbe Cavicchi, il privilegio di generare, ripetono quello che suggeriscono tutti i media: che è meglio fare un cesareo, è più sicuro. Si propinano insegnamenti neutri ad una platea (che si considera) neutra senza mai farsi attraversare dalla curiosità di domande del tipo: esiste una declinazione  “di genere” nell’insegnamento?(Gunilla Risbrg, Eva E Johansson, Goran Westman, Katarina Hamberg, Attitudes toward and experiences of gender issues among physician teachers: A survey study conducted at a university teaching hospital in Sweden, BMC Medical education 2008, 8:10)
 
Che sia una donna o un uomo ad insegnare la Medicina (ma la Chimica, la Fisica) è lo stesso? Avrà lo stesso impatto, privilegerà altri percorsi cognitivi? E quali? E l'apprendimento? Si può dire che sia influenzato dal genere? Non sul rendimento (i dati sono sotto gli occhi di tutti, e danno le donne in pole position), ma su differenti attitudini (e quali?) nella trasmissione del sapere (saper fare, saper essere). Questa premessa è quasi agli antipodi con le conclusioni solitamente  a margine di tutti i convegni  sulla femminilizzazione della Medicina, affiorate qua e là anche negli interventi delle altre colleghe. E’ vero: a migliori  performances  negli studi, ampiamente documentate, corrisponde sicuramente una maggiore disponibilità di tempo per il paziente (anche questo documentato), ed equivalenti standard di abilità chirurgiche, al netto delle ”barriere indirette”(Women and Medicine: The Future, 2009, Royal College of Physician, Mary Ann Elston)
 
Da qui scaturiscono diffusi riferimenti ad innate capacità di relazione con i pazienti, a condivisibili  capacità/potenzialità di leadership, e in qualche modo l'assioma “donna è meglio”.  Ma la bravura delle donne nel superare gli ostacoli negli studi STEM (Scientific, Tecnological, Medical) paradossalmente ci dice solo della loro grande capacità di mimesi, così pervase dal modello di neutralità da non riconoscere differenze e vedere nelle simili che denunciano disagio un problema (Laura A. Rhoton, Distancing as a Gender Barrier: Understanding Women Scientist’s Gender Practices, Gender&Society 2011 25:696). Come dicevamo in un recente convegno (Donne in Medicina: una nuova sfida per la sanità del futuro, I Conferenza Nazionale Donne Anaao Assomed - Iniziativa Ospedaliera, 1/2013) “nel rincorrere una improbabile parità, sono state perse di vista le contraddizioni e il malessere che deriva, per le donne, dall'essere formate, e poi lavorare, in un contesto maschile, con un pensiero ed un linguaggio estranei”.
 
Come testimonia Angela Grondona, la collega che ci ha prematuramente lasciato:“Ritornando a quello che succedeva in quegli anni, quelle modalità di partorire, di prendersi cura delle donne, non erano le nostre, ma l’ambiente e la necessità di viverci  ti induceva a copiare certi atteggiamenti negativi che magari ci sentivamo stretti, non nostri;  però finivamo poi per pensarli come naturali...In quello spazio, con quei tempi, quelle ritualità poste come assiomi, come cose da fare, finivi per adeguarti …anche se, ripercorrendo , questo bisogno di comprendere, di accogliere, l’avevamo messo in quel gruppo  dove avevamo lo spazio fisico e mentale per poter riconoscere alcune parti di noi che in quell’ingranaggio di apprendimento non erano neanche immaginate, erano represse. Abbiamo potuto soddisfare questi aspetti così inascoltati.”. Non saranno le pari opportunità applicate a condizioni dispari (la competenza  procreativa, la più cruciale tra tutte) a sanare le contraddizioni lasciate ampiamente irrisolte dall'emancipazionismo del secolo scorso, il cui limite Christa Wolf identificava in “quella sollecitazione a farsi avanti, a entrare in una condizione per tanti aspetti desiderabile , ma senza portarvi l'integrità della propria più elementare esperienza , quella associata al corpo e alla sessualità”(Fulmine a ciel sereno, La tartaruga ed, Milano,1981).                                
 
Un futuro poco solidale sta preparando, non da oggi, Sanità sempre meno sociali, già diverse dagli ospedali e dalle aule che conosciamo, e per questa via non basterà occupare/ereditare posti di leadership per abitare con agio luoghi in transizione, per il cui pensiero e governo globale (scelte, tempi, prospettive, libertà) non ci si sia contestualmente attrezzati. Essere curanti in un corpo di donna con voce di donna è un obiettivo, a quanto vediamo, ancora lontano dalle agende femminili delle associazioni mediche, scientifiche e di categoria. Oggi è invece a partire dall’intero impianto educativo in Medicina, come in quello organizzativo-gestionale delle strutture dove questa si pratica, che deve essere immaginato un lavoro vicino alla vita di tutti, curanti e curati, donne e uomini.
 
Questo compito potrebbe toccare proprio alle più giovani che si affollano in maggioranza nel fortino oramai quasi svuotato di maschi e di  mezzi. Alle meno giovani il dovere di sollecitare una riflessione: è tempo di ri-conoscimenti (sesso, genere, identità), contaminazioni, visionarietà, coraggio.
 
Sandra Morano
Ginecologa - Ricercatrice Università di Genova
 
 
 
 
 
 

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