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Mercoledì 31 LUGLIO 2013
Le donne in sanità e la questione “relazione”
La relazione non è quello che pensano gli umanizzatori della domenica cioè amabilità deontologica ma è il mezzo attraverso il quale è possibile ripensare conoscenza/prassi e clinica. E non è un “vezzo” delle donne medico
La questione che dal convegno di Cagliari sul cancro della mammella è presente come “basso continuo” in tutti gli interventi della discussione (Orrù, Sarobba, Calvisi, Nonnis, Mazzei, Ferrari) è senz'altro la relazione. Titti Mazzei cita una letteratura che dimostrerebbe come un numero significativo di donne medico siano denotabili proprio dalla relazione. Perché questo? Sino ad ora le spiegazioni correnti si sono rifatte all'indole, a qualità innate, e in qualche caso al “lavoro di cura” come se la relazione fosse una “specialità” di genere. Certe componenti antropologiche predisponenti,in certe donne medico, non possono a priori essere escluse ma nello stesso tempo è difficile dimostrare che basta il genere in se a fare relazioni.
Dire che tutte le donne sono “relate” è una induzione rischiosa. Possibile mai che al mondo non vi sia neanche una donna medico irrelata e neanche un maschio medico relato? Ma evitare le fallacie dell'induttivismo di genere non significa che non possiamo dedurre da una caratteristica tendenzialmente dominante, come quella di costruire relazioni, donne medico in carne ed ossa, come quelle che su questo giornale sono intervenute, per le quali il loro genere sia implicato strettamente con la relazione. E né possiamo escludere che vi siano maschi medici a loro volta sensibili alle relazioni. Personalmente penso, prima di tutto, che la relazione sia soprattutto un mezzo per praticare una certa medicina e non un fine deontologico come sento dire continuamente nei convegni.
Per chi vuole conoscere e curare “qualcosa e qualcuno in un contesto” quindi il “superoggetto”, come si è detto a Cagliari, la relazione è di fatto obbligatoria. Concordo con Titti Mazzei, che la relazione è uno strumento usato più dalle donne che dagli uomini perché certe donne hanno una idea “complessa” di medicina. Le ontologie complesse non si possono conoscere se non attraverso delle relazioni. E i sistemi di cura tarati su quelle ontologie a loro volta non possono che essere sistemi relazionali.
La relazione quindi non è quello che pensano gli umanizzatori della domenica cioè amabilità deontologica ma è il mezzo attraverso il quale è possibile ripensare conoscenza/prassi e clinica. Rammento che la conoscenza clinica è una “conoscenza irrelata” che si basa sul ri-conoscimento della malattia di un organo attraverso i sintomi, quindi sull'osservazione e gioco forza sulla giustapposizione tra il medico che osserva e l'organo osservato.Organizzare relazioni in luogo delle giustapposizioni, come fanno molte donne medico, è un atto di riforma importante che cambia l'organizzazione delle prassi. Per non farla tanto lunga, avendo affrontato la questione altrove (La clinica e la relazione Bollati Boringhieri 2004), mi limito a delle sottolineature:
• la relazione è ciò che inter-corre tra il medico e il malato, essa ha una forma binaria interdipendente nella quale colui che osserva e colui che è osservato sono reciprocamente implicati;
• in una relazione di cura il malato è relativo al medico “come a sua causa” e viceversa cioè sono correlabili quindi la conoscenza del malato dipende anche da chi e da come si conosce il malato;
• una relazione di cura è eccentrica (senza un centro) nel senso che in essa non esistono più criteri assoluti, unici o prioritari di riferimento come in genere sono le evidenze scientifiche ma una molteplicità di altri generi di evidenze. Oltre ai significati clinici esiste anche l'opinione del malato,il senso che lui attribuisce alla propria malattia, la personalità della persona, il suo contesto di vita. Cioè oltre a “qualcosa” c'è sempre “qualcuno”. Le relazioni sono “eccentriche” perché esse sono come gli snodi autostradali…interconnettono tante strade cioè tutte le possibilità di un viaggio. Eccentricità quindi non centralità;
• nella relazione i modelli e le procedure vanno reinterpretati perchè inevitabilmente si pone una questione di personalizzazione della cura;
• nella relazione è importante tanto la conoscenza scientifica che la sensibilità ontologica. Si tratta dicapire cosa esiste in un malato e chi è e quindi quali conoscenze scientifiche sono ammissibili, cosa è meglio fare e cosa è meglio non fare;
• la relazione risolve il paradosso di una informazione e di una comunicazione senza linguaggio, tipico di certa manualistica che riduce tutto a tecniche comunicative, a messaggi da trasmettere, a informazioni da dare, senza comprendere il valore conoscitivo del linguaggio. In una relazione il linguaggio è parte della cura .
La relazione quindi non è un vezzo culturale delle donne medico, ma qualcosa che proprio come qualsiasi mezzo va organizzato. Ripensare le ontologie dell'organo significa, come si è detto a Cagliari, definire “il miglior percorso per la cura integrata della neoplasia della mammella” cioè:
• se vogliamo cambiare l'ontologia del malato,dobbiamo avere relazioni con il malato;
• per avere relazioni con il malato dobbiamo avere con lui relazioni di cura inter-professionali.
In sintesi:
• senza relazioni non si cambia un fico secco;
• le relazioni rappresentano un pensiero riformatore eccentrico cioè complesso.
Molte sono le donne che praticano nonostante tutto una “medicina eccentrica” sempre più sono le donne che entrano in Parlamento, nel governo, nelle regioni, nelle aziende, ma che non sono per niente “eccentriche”. In futuro credo che questa sia la contraddizione da rimuovere.
Ivan Cavicchi
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