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Mercoledì 31 LUGLIO 2013
Cancro. Gli scienziati Usa. E’ il momento di cambiargli nome
Un report del National Cancer Institute. "Il paziente sente la parola 'cancro' e pensa che morirà a meno che non venga trattato al più presto". E invece "non c’è bisogno di trattare ogni massa che emerge dalle analisi". La proposta sta già facendo discutere il mondo dell'oncologia.
Ti arriva la diagnosi di cancro e il mondo ti cade addosso. Eppure, tra le tante patologie racchiuse sotto questo nome non ci sono solo malattie che porteranno inesorabilmente alla morte. Si tratta invece di un gruppo di condizioni molto più eterogeneo, che non per forza finirà per portare a metastasi o diventare letale, ma che anzi include anche patologie più indolenti, che anche nel caso non vengano mai trattate potrebbero non causare alcun danno lungo il corso della vita di un paziente. Ma allora perché non chiamare queste condizioni meno “pericolose” in maniera diversa? Questa è proprio la proposta di un gruppo di consulenti del National Cancer Institute statunitense, pubblicati in un report su The Journal of American Medical Association (Jama). Secondo gli esperti, cambiare la definizione di cancro ed eliminare questo termine da alcune diagnosi comuni, potrebbe essere parte di un cambiamento più complessivo dell’approccio alla diagnosi e al trattamento dei tumori, volto a limitare sovradiagnosi e sovratrattamento.
Tutto parte, infatti, proprio da un problema che ultimamente si fa sempre più pressante tra il personale medico, gli scienziati e le associazioni di pazienti: molte persone si sottopongono a trattamenti inutili – spesso dolorosi e a volte dannosi – per lesioni precancerose la cui evoluzione è talmente lenta da considerarsi altamente improbabile possano avere ripercussioni gravi sulla salute dei pazienti. “Abbiamo ancora problemi a far capire ai pazienti che non tutte le diagnosi di tumore che derivano da mammografie o test alla prostata sono da ritenere “maligne” nel senso più spaventoso: non è detto per forza che ti uccideranno, né che sei destinato a stare male”, ha spiegato in un’intervista al New York Times Harold E. Varmus, premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia e direttore del National Cancer Institute. “E non solo i pazienti fanno fatica a capirlo, ma comprendere questo concetto è difficile anche per la società intera”.
Pensiamo ad esempio ad alcune condizioni precancerose come il carcinoma duttale in situ, che è una condizione che molti medici non considerano cancro ma che aumenta le possibilità che questo si sviluppi: secondo l’istituzione statunitense varrebbe la pena di escludere qualsiasi riferimento al tumore nel nome stesso della patologia, in modo che le donne cui viene diagnosticata si spaventino meno ed evitino trattamenti non necessari e potenzialmente dannosi, come la mastectomia preventiva (divenuta tanto famosa per la decisione di Angelina Jolie di farsi asportare il seno per ridurre il rischio di sviluppare cancro).
Allo stesso modo, il gruppo di esperti suggerisce che ad altre lesioni simili rilevate durante gli screening per il cancro al seno, alla prostata, alla tiroide o ai polmoni possa essere cambiato nome, e che si smetta di fare riferimento ai tumori nella loro diagnosi. In particolare, queste dovrebbero essere riclassificate come “lesioni indolenti di origine epiteliale” (IDLE, indolent lesions of epithelial origin). “Abbiamo bisogno di una nuova definizione, che sia più adatta al 21esimo secolo in cui viviamo, e che non alluda al cancro inteso come era inteso nel 19esimo secolo”, ha spiegato Otis W. Brawley dell’American Cancer Society, esperto che non era direttamente coinvolto nel report pubblicato su Jama.
L’arrivo di tecnologie di screening sempre più sensibili e precise negli ultimi anni ha aumentato la probabilità di trovare incidentalmente masse neoplastiche (benigne o maligne che siano). Si tratta appunto dei cosiddetti “incidentalomi”, che vengono rilevati durante analisi più o meno approfondite, e che probabilmente non causerebbero sintomi né problemi di alcun tipo. Tuttavia, una volta scoperti, inizia la procedura standard: prima biopsia, poi trattamento o rimozione. Il tutto accompagnato da dolore fisico e spesso psicologico e non privo di qualche rischio. Si tratta di quelle che gli esperti chiamano sovradiagnosi, e le terapie che ne conseguono sono chiamate sovra trattamenti, procedure farmacologiche o chirurgiche che in realtà potrebbero essere evitate. Anche perché questo tipo di trattamento aggressivo per le lesioni precancerose non ha nel tempo portato a una riduzione dei tumori invasivi.
Secondo molti esperti “cambiare il linguaggio che si usa nelle diagnosi è essenziale per dare ai pazienti la fiducia che non c’è bisogno di trattare in maniera così aggressiva ogni massa che emerge dalle analisi”, come ha spiegato Laura J. Esserman, direttrice del Carol Franc Buck Breast Care Center dell’Università della California di San Francisco e prima autrice del report. “Il problema è che il paziente sente la parola “cancro” e pensa che morirà a meno che non venga trattato al più presto. Probabilmente sarebbe più intelligente riservare questo termine per le condizioni che hanno qualche probabilità in più di creare un vero problema”.
Chiaramente gli stessi esperti che hanno proposto questo cambiamento sanno che non sarà accettato universalmente. La preoccupazione di molti, infatti, è che poiché i medici non sanno ancora sempre discernere quali siano i tumori benigni o a crescita lenta dalle patologie più aggressive, trattano tutte le condizioni come se fossero gravi. Come risultato, scovano e trattano dozzine di lesioni precancerose e tumori allo stato iniziale che non per forza sarebbero da trattare. “Cambiare la terminologia non risolve questo problema”, ha commentato Larry Norton, direttore medico dell’Evelyn H. Lauder Breast Center del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center. “Quali casi di “lesioni indolenti di origine epiteliale” porteranno a un cancro e quali no?”, ha provocato. “Mi piacerebbe saperlo. Noi non abbiamo modo di guardare al microscopio un tessuto che viene dal carcinoma duttale in situ e dire con sicurezza che al massimo porterà a un cancro a crescita lenta”.
Tuttavia, la discussione che si sta aprendo nel mondo accademico e clinico a partire da questo report è comunque un passo in avanti. “I nostri scienziati non cercano solo nuovi metodi per scovare i tumori ad uno stadio iniziale, ma stanno anche cercando il modo di capire se c’è modo di dire quanto saranno aggressivi”, ha concluso il Nobel Varmus. “E questo è già un bel cambiamento nel modo di pensare rispetto a 20 anni fa. Ci sarà un giorno in cui la prima cosa che proveranno i pazienti cui verrà diagnosticato un cancro non sarà l’intensa paura per la sensazione di aver appena ricevuto una condanna a morte”.
Laura Berardi
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