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Lunedì 18 OTTOBRE 2010
Inchiesta QS/2. Un’Italia senza medici? Bellantone (Gemelli): “Il vero allarme è la carenza di chirurghi”
Secondo il Piano sanitario nazionale 2011-2013, entro il 2018 mancheranno 22.000 medici a causa del calo progressivo di laureati in Medicina. Ma per il prof. Rocco Bellantone, preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia “Agostino Gemelli” dell'Università Cattolica di Roma la riprogrammazione dei posti a disposizione nelle Università permetterà di far fronte alla carenza di medici. “Senza una revisione del sistema penale contro l’aumento delle denunce in sanità, però, il rischio è di un’Italia senza chirurghi”.
Allarme diffuso per la carenza di medici in Italia. A lanciarlo è stato lo stesso ministero della Salute, che nella bozza del nuovo Piano sanitario nazionale mette l’indice sul calo delle immatricolazioni universitarie in Medicina e Chirurgia. Su questa criticità, le sue cause e le possibili soluzioni, Quotidiano Sanità ha intervistato il prof. Rocco Bellantone, preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia “Agostino Gemelli” dell'Università Cattolica di Roma.
Professore, il ministero della Salute ha lanciato l’allarme per la carenza di medici, attribuendone le cause a un calo di immatricolazioni nella Facoltà di Medicina. È così?
In realtà i ragazzi che fanno domanda per il test di accesso a Medicina sono tantissimi. Al Gemelli sono stati 5.400, con un incremento di oltre il 20% rispetto allo scorso anno e a fronte di 256 posti disponibili. In Italia le domande sono state circa 80.000 per poco più di 8.500 posti a disposizione.
Il problema non è la carenza di vocazioni, quanto la sbagliata programmazione del fabbisogno nazionale, che negli anni passati è stato evidentemente sottovalutato.
La Medicina, quindi, non ha perso il suo appeal.
Assolutamente no, nonostante sia un percorso lungo e faticoso.
Ma il problema della carenza di medici resta…
Personalmente credo che sia meno grave di quel che sembri, perché già negli ultimi due anni la quota di posti a disposizione nelle Facoltà è stata incrementata del 10% e i ministeri della Salute e dell’Università stanno programmando ulteriori incrementi per gli anni a venire. Più che la mancanza di medici, credo che il rischio concreto del futuro sia la carenza di alcune specialità, come ad esempio la chirurgia.
Un allarme lanciato sistematicamente, soprattutto quando vengono presentati i dati sulle denunce nei confronti dei medici.
Esattamente. Alcune specialità mediche sono diventate a così alto rischio di denuncia penale da innescare una reazione difensiva, sia da parte dei chirurghi che esercitano la professione e che sempre più spesso praticano la medicina difensiva, appunto, ma anche da parte degli studenti che sempre meno scelgono di diventare chirurghi. Ci sono scuole di Chirurgia che oggi non riescono neanche a riempire i posti a concorso.
Se questo trend continuerà, l’Italia si troverà a dover importare chirurghi ed altri specialisti dall’estero. E in tutta sincerità, non credo che la preparazione che è in grado di garantire l’Università italiana sia ugualmente buona in altri Paesi europei.
Il fatto è che se per alcune specialità questo problema si può risolvere attraverso l’incremento dei posti nelle scuole di specializzazione, aumentare i posti è inutile se sono gli stessi studenti a non volersi iscrivere.
E cosa si potrebbe fare per incentivare i ragazzi a diventare chirurghi?
Eliminare il timore di denunce penali. Pensi che noi abbiamo un legislazione in materia di colpa sanitaria che risale al Codice Rocco. Addirittura nel codice italiano non è previsto l’“atto medico”. Questo significa che dal punto di vista prettamente giuridico, quando incidiamo un addome, compiamo un “atto lesivo”. È poi il giudice che ci riconosce che quello che abbiamo compiuto è stato a scopo benefico, ma questo avviene solo a posteriori.
Una situazione paradossale ed unica al mondo. È chiaro che un medico interviene per il bene del paziente e non certo per danneggiarlo. Ma è altrettanto chiaro che uno studente non è invogliato ad esporsi al rischio di denunce che compromettono la carriera e la vita. Peraltro 8 cause su 10, in Italia, finiscono con l’assoluzione del medico. Dopo 6/7 anni di calvario, però.
Occorre quindi intervenire a livello legislativo.
L’attuale legge in materia è assolutamente in adeguata. L’Italia è il Paese con il maggior numero di cause penali contro i medici, il che è incoerente con il fatto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ci riconosca come il secondo migliore sistema sanitario al mondo. Un paradosso dovuto al fatto che in Italia l’errore medico rientra nel penale e non nella responsabilità civile.
Depenalizzare l’errore medico, quindi?
La parola “depenalizzazione” non è corretta, perché sembra nascondere la volontà di rendere i medici impunibili. Si tratta invece di portare l’Italia a livello degli altri Paesi dove il medico viene punito penalmente solo se ha una colpa grave. Il Centro “Federico Stella” della Cattolica di Milano ha elaborato una proposta di riforma giuridica per rivisitare il problema della colpa penale del medico proprio in questo senso.
Nelle commissioni Sanità di Camera e Senato vi sono anche altri progetti di legge che hanno lo stesso obiettivo.
Sì, ma sono fermi da mesi. Si parla di responsabilità medica, ma servirebbe anche una forte responsabilità politica. Considerando anche le conseguenze della mancanza di leggi adeguate, che in questo caso produrrà una carenza di chirurghi che si rivelerà dannosa per la salute della popolazione e per il Paese intero.
Anche i cittadini, però, hanno la loro responsabilità. Dovrebbero capire che un chirurgo, quando opera, lo fa con l’obiettivo di tutelare la salute del paziente, ma che un medico non è infallibile e certe condizioni cliniche e tecniche rendono alcuni interventi fortemente rischiosi, indipendentemente dal medico.
Tornando alle Università, cosa pensa dell’ipotesi di eliminare il numero chiuso per l’accesso a Medicina?
Sono assolutamente contrario. Un numero di studenti eccessivo va a discapito della qualità, soprattutto in una Facoltà dove la componente pratica è essenziale. Si possono, anzi si devono aumentare i posti a disposizione, ma aprire totalmente i cancelli sarebbe dannoso.
La medicina è sempre più donna. Perché?
Credo che sia un’evoluzione naturale. Prima la professione medica, considerata molto faticosa e impegnativa, si adattava poco al ruolo che la donna aveva nella società, che era fortemente legato alla famiglia. Oggi la carriera professionale ha per le donne la stessa importanza che ha per gli uomini. Questo vale per la Medicina come per il giornalismo e tutte le altre professioni. Se una donna scegliere una carriera, non ci sono condizionamenti sociali a fermarla.
La componente femminile è sempre più numerosa anche in specialità che fino a pochi anni fa era prerogativa maschile, ad esempio la chirurgia. Consideri che quando ho iniziato a lavorare, alla fine degli anni ’70, le donne chirurgo erano talmente poche che nelle sale operatorie c’erano solo spogliatoi per gli uomini. Le colleghe erano costrette ad andarsi a cambiare dalle colleghe anestesiste, che erano più numerose e per le quali erano state allestite apposite stanze. Oggi, invece, le scuole di specializzazione in Chirurgia sono formate per il 50% proprio da donne.
Si denuncia ancora un certo maschilismo per le cariche apicali, ma ritengo che sia un fenomeno momentaneo che cambierà con la stessa naturalezza con cui è aumentata la presenza femminile nelle Facoltà di Medicina. Man mano che la carriera delle donne medico andrà avanti, saranno sempre più numerose quelle che raggiungeranno le cariche apicali.
Ritiene che nel piano formativo di Medicina dovrebbero essere potenziati i corsi in management?
Sono sicuramente materie importanti, ma non mi sembra che ad oggi il clinico abbia un vero ruolo manageriale all’interno delle aziende. Che senso ha potenziare la formazione se non c’è un potenziamento del ruolo? Ci vengono richieste capacità manageriali, ma il governo clinico che tanto si auspica, in Italia, di fatto, non esiste.
Se devo essere sincero, non condivido che debba essere un clinico a governare l’ospedale, così come non condivido la visione dell’ospedale come fosse un’azienda. Credo che a governare l’ospedale debba essere un professionista che ha dedicato tutto il suo percorso formativo a questa finalità. Però ritengo che sia sbagliato lasciare che questi manager abbiano potere assoluto, perché l’ospedale è un luogo di cura e non una fabbrica.
La formula corretta, secondo il mio parere, è nella condivisione di responsabilità e nel giusto equilibrio tra necessità cliniche e necessità di bilancio. Questo anche considerato che penalizzare la qualità aumenta gli sprechi. È sotto gli occhi di tutti: dove c’è qualità, c’è pareggio di bilancio.
In questo momento, in Italia, si guarda però solo ai conti. E questo lo pagheremo caro. Sia in termini di salute che di economia.
Lucia Conti
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