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Lunedì 15 APRILE 2013
Cuore. In 50 anni salvate 750mila vite. Ma "cattive abitudini" giovani riaccendono il rischio
Grazie alla prevenzione e alle cure innovative dagli anni Settanta i tassi di mortalità sono in lenta ma costante discesa. Eppure il rischio è ancora dietro l’angolo. La colpa è di una percezione del rischio più bassa, e degli stili di vita sbagliati che si fanno largo soprattutto tra i giovani.
750mila morti, come gli abitanti di Firenze e Bologna insieme. Non una strage e ben lungi dall’essere un dato di cui rammaricarsi: è questo il numero di persone salvate in Italia negli ultimi 50 anni grazie a nuove cure e a una rete efficiente di cardiologi. A dirlo sono proprio loro, gli specialisti del cuore riuniti in occasione del 50° anniversario della nascita dell'Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO) a Venezia, dove stanno hanno tracciato un bilancio di mezzo secolo di cure, in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità. Ma gli specialisti lanciano l’allarme: proprio l’ottimizzazione delle terapie ha portato gli italiani a temere meno l’infarto e a essere quindi meno attenti agli stili di vita. Per non vanificare i risultati ottenuti bisogna tenere alta l’attenzione su alimentazione e sedentarietà, ma anche sugli stili di vita più giovani: mangiare male e muoversi poco, insieme alla depressione “da mancanza di lavoro”, allo sballo da movida e nelle ragazze anche al cocktail fumo-pillola anticoncezionale, stanno creando una generazione di adulti destinati ad ammalarsi di cuore più dei loro nonni.
“Negli anni 60 quando nasceva ANMCO il cuore dei nostri nonni non godeva di buona salute: l’infarto mieteva moltissime vittime, colpiva in media a 40-50 anni e chi scampava alla morte finiva un mese in ospedale e poi era considerato invalido a vita”, ha spiegato Francesco Bovenzi, presidente ANMCO. “I fattori di rischio conosciuti erano tre, la pressione arteriosa, il fumo e il colesterolo; mentre però l’alimentazione difficilmente contemplava troppi grassi, l'abitudine alle sigarette era una vera e propria epidemia fra gli uomini, visto che otto su dieci fumavano, ed era poco diffusa solo fra le donne (8 % di fumatrici). Oggi l'infarto è diventato un “problema da vecchi”: colpisce in media intorno ai 70 anni, il ricovero dura pochi giorni e soprattutto si muore assai di meno, visto che la mortalità per chi viene ricoverato in un'Unità di Terapia Intensiva Coronarica (UTIC) è del 3%, e del 10% quella di chi viene curato in unità non specialistiche. Così adesso il numero di vittime è sceso a 35mila all'anno, con una riduzione del 60% della mortalità che ha consentito di “risparmiare” ben 750mila vite in mezzo secolo”.
“In ascesa negli uomini e nelle donne fino alla metà degli anni ‘70, con un picco di oltre 90mila vittime, in Italia la mortalità per infarto ha iniziato a diminuire a partire dalla metà degli anni ’70 grazie al miglioramento delle terapie in fase acuta e post-acuta, all’organizzazione delle UTIC e al miglioramento degli stili di vita nella popolazione generale”, ha aggiunto Simona Giampaoli, responsabile del Reparto di Epidemiologia delle malattie cerebro e cardiovascolari, Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell’Istituto Superiore di Sanità. “È interessante notare che sia negli uomini che nelle donne i tassi di mortalità più elevati si registravano a Nord, rispetto al Centro e al Sud d’Italia, con una differenza che si è andata gradualmente riducendo fino a scomparire. Il trend è ancora oggi in continua e lenta discesa; decrementi leggermente superiori si sono avuti negli anni ’90 in corrispondenza dell’introduzione della trombolisi, degli interventi di by-pass e angioplastica. Nel 2000 ci sono stati 43.000 decessi in meno rispetto al 1980: tale riduzione è spiegata per il 40% dal miglioramento delle terapie in fase acuta e in prevenzione farmacologica primaria e secondaria, e per il 55% dal miglioramento degli stili di vita; però già in quegli anni si cominciava a temere per l’aumento del diabete e dell’obesità; ancora oggi comunque non siamo in grado di spiegare una piccola quota di questa riduzione”.
Purtroppo proprio l’ottimizzazione delle cure, paradossalmente ha portato gli italiani a temere meno l’infarto e a essere più riluttanti ad abbandonare le cattive abitudini. Fumo, sedentarietà, alimentazione sbagliata sono ancora gli ostacoli più difficili da superare che mettono a rischio non soltanto chi a seguito di un infarto è stato sottoposto a un’angioplastica o deve assumere farmaci e sottostima la serietà della situazione, ma anche i più giovani, perché ai fattori di rischio tradizionali aggiungono lo sballo del weekend con abuso di droghe e alcol, la “depressione da crisi” e, nel caso delle ragazze, anche il pericolosissimo cocktail fumo e pillola anticoncezionale che aumenta fino a 30 volte il rischio di eventi cardiovascolari e trombosi.
“Di fatto oggi i giovani che adottano stili di vita scorretti, rischiano un infarto più di 50 anni fa e temiamo che in un prossimo futuro, i decessi possano tornare a salire”, ha ripreso Bovenzi. “Non possiamo aspettarci miglioramenti ulteriori e consistenti dall'avanzamento delle tecnologie e dei trattamenti nella lotta contro l'infarto che si può combattere anche grazie a una migliore diagnostica: oggi infatti siamo in grado di individuare mini-infarti che in passato non si riconoscevano e che potrebbero essere preziosi campanelli d'allarme. Abbiamo dunque tutto ciò che ci serve perché la mortalità per infarto si trasformi da un’epidemia in un’endemia, ma gli italiani devono capire che per riuscirvi serve ormai soprattutto il loro impegno nel perseguire corretti stili di vita. La consapevolezza del rischio cardiovascolare deve dunque riguardare non solo gli anziani o coloro che sono colpiti da malattie importanti ma anche i giovani che ne sottovalutano l’importanza e si considerano, a torto, meno a rischio degli altri. Per raggiungere questo obiettivo l’ANMCO, che in 50 anni ha contribuito in modo determinante alla difesa del cuore degli italiani, grazie alla ricerca e ai risultati clinici conseguiti, apre a una nuova visione dell’assistenza con l’obiettivo di farsi carico del benessere globale del paziente, migliorare l’organizzazione della rete ospedaliera e promuovere l’educazione alla prevenzione dei cittadini anche attraverso l’insegnamento della salute nelle scuole”.
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