quotidianosanità.it
La recente pronuncia della Corte costituzionale (n. 197/2024) è intervenuta, ancora una volta, in materia sanitaria sul rapporto Stato-Regioni o, meglio, su ciò che è rispettivamente consentito e vietato, in occasione della ritenuta violazione, da parte del Governo, del riparto costituzionale di cui all’art. 117, co. 2, lett. l) e co.3 della Carta, evocato sotto vari profili con riguardo a diverse disposizioni regionali oggetto di impugnazione. La legge incriminata è la n. 3 del 2024 della Regione Sicilia. I punti affrontati dal giudice della legittimità sono sostanzialmente tre: il superamento dei limiti di spesa in costanza di rientro dal disavanzo sanitario; contenimento della spesa per il personale sanitario e, infine, compensi degli amministratori e dei dipendenti delle società partecipate. Andando con ordine. A risolverla, la sentenza della Corte che, in pieno accoglimento dei rilievi del Governo, ha statuito che la Regione sottoposta al piano di rientro dal disavanzo sanitario non può erogare livelli di assistenza ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa statale, con il conseguente rilievo che gli interventi individuati dal piano sono per essa vincolanti e che è obbligata a rimuovere i provvedimenti, anche legislativi e a non adottarne di nuovi che siano di ostacolo alla piena attuazione del piano medesimo. Quindi, l’aumento delle tariffe previsto a carico del bilancio regionale non è in linea con i valori nazionali di riferimento e si traduce in una spesa sanitaria ulteriore rispetto agli esborsi concordati in sede di approvazione del Piano di rientro, dal quale discende la cornice economico finanziaria in cui la Regione è tenuta a muoversi. In ciò ricordando la propria posizione in materia sanitaria evincibile dalle numerose sentenze pronunciate che si compendia nel concetto che le Regioni sono chiamate a contribuire al raggiungimento di un ragionevole punto di equilibrio tra l’esigenza di assicurare (almeno) i LEA e quella di garantire una più efficiente ed efficace spesa pubblica, anch’essa funzionale al perseguimento dell’interesse pubblico del settore. A tal proposito, assumono rilevanza i vincoli che discendono, per la Regione che li ha sottoscritti, dai piani di rientro dal deficit di bilancio in materia sanitaria in quanto funzionali al mantenimento della spesa pubblica entro confini certi e predeterminati e che, al tempo stesso, consentono comunque l’erogazione dei LEA in favore dell’utenza. Perché la disciplina dei piani di rientro, secondo la giurisprudenza della Corte, va ricondotta a “un duplice ambito di potestà legislativa concorrente, ai sensi dell’art. 117, co. 3, Cost.: tutela della salute e coordinamento della finanza pubblica” il che comporta che “nel suo bilancio non possono essere previste spese sanitarie ulteriori rispetto a quelle inerenti ai livelli essenziali”. Con chiara esclusione degli esborsi dovuti all’adozione, da parte della Regione, di tariffe sanitarie superiori a quelle di riferimento, come definite a livello nazionale secondo le procedure previste dal d.lgs. n. 502/92, che è proprio ciò che deriva dalle disposizioni regionali contestate. Le previsioni delle norme che riguardano la disciplina dei piani di rientro, sono espressione di un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, per effetto del quale “la Regione è quindi obbligata a rimuovere i provvedimenti, anche legislativi, e a non adottarne di nuovi che siano di ostacolo alla piena realizzazione dei piani di rientro”. La rilevata illegittimità costituzionale consiste nella violazione del limite di demarcazione tra la competenza regionale e quella statale. Ha cioè, ritenuto la Corte che l’applicazione di detto regolamento, per espresso disposto della legge nazionale, è esclusa per le società in quanto ha ad oggetto il c.d. ordinamento civile, ovvero il rapporto privatistico tra la società ed i suoi dipendenti e, in quanto tale, rientrante, ai sensi del 2 co., lett. l) dell’art. 117 della Costituzione, nella competenza esclusiva del legislatore statale, poiché afferisce ad aspetti inerenti ai “compensi di amministratori, dirigenti e dipendenti, [al]la puntuale regolamentazione del conferimento e della pubblicità degli incarichi di consulenza, di collaborazione e degli incarichi professionali, [e al]le previsioni sul pagamento dei relativi compensi”, attenendo, come peraltro chiarito già in precedenza, ad “aspetti eminentemente privatistici, connessi al rapporto negoziale che si instaura tra le società a controllo pubblico e un’ampia platea di soggetti” cui si deve far fronte, apprestando una disciplina uniforme a livello nazionale. La dichiarata illegittimità costituzionale di tale norma risiede nella violazione della costante affermazione della Corte con riguardo alla disciplina dei rapporti di lavoro pubblico e alla loro contrattualizzazione, atteso che le regole fissate dalla legge statale in materia “costituiscono tipici limiti di diritto privato, fondati sull’esigenza, connessa al precetto costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti fra privati e, come tali, si impongono anche alle Regioni a statuto speciale”. Il rinvio operato al precedente DPCM (il n. 143 del 2022) per la fissazione dei compensi per gli amministratori e i dipendenti delle società partecipate, allora, deve intendersi riferita a tutte le pubbliche amministrazioni che concorrono a determinare la cosiddetta finanza pubblica allargata con la chiara esclusione dal proprio ambito di applicazione degli organismi costituiti in forma societaria, per i quali l’elargizione dei compensi grava sulla finanza pubblica, tra i quali, proprio “le società di cui al d.l.vo 19 agosto 2016, n. 175”. 3 Da ultimo, ma non certo per ordine di importanza, il focus sul co. 1 dell’art. 71, che ha esteso fino al 2026 quella particolare indennità di funzione introdotta da una precedente legge durante il periodo COVID in favore delle strutture private accreditate con il SSR. Sempre di rango regionale, la n.9/2020 aveva stabilito la restituzione dell’acconto sul budget per l’anno 2020 riconosciuto in favore di alcune strutture sanitarie specialistiche accreditate a titolo di “indennità di funzione” e oggetto di conguaglio mediante prestazioni rese extrabudget, ma solo con riferimento al triennio 2020-2022 perché si collocava pienamente nell’emergenza pandemica e garantiva un regolare flusso di cassa e, soprattutto, la continuità del servizio. Più precisamente, in base a tale meccanismo, che interveniva in materia di prestazioni rese dalle strutture accreditate con il SSR, si consentiva a queste ultime di restituire l’anticipazione loro riconosciuta per l’anno 2020 (a titolo di “indennità di funzione” per il periodo della pandemia) mediante gli importi maturati come extrabudget, non liquidabile, nelle annualità successive. La Regione ha tentato di motivare tale estensione temporale con il contenimento dei costi del contenzioso instaurato dalle strutture accreditate nei confronti delle aziende sanitarie per il pagamento dell’indennità di funzione, quale prevista dalla norma regionale del 2020, senza che ciò comporti alcun incremento di spesa, in quanto i relativi costi sarebbero coperti con il “fondo contenzioso” di ciascuna azienda, e sarebbe anzi funzionale al soddisfacimento di una più ampia assistenza sanitaria per gli utenti. L’illegittimità oggi contestata, invece, risiede proprio nel fatto che, a causa della cessazione dell’emergenza, l’estensione determina il venir meno dei vincoli posti dal sistema nazionale del budget di spesa ampliando illegittimamente gli esborsi a carico del bilancio regionale, già di per sé sofferente perché in equilibrio precario. E la prova di ciò è data dal rigetto, in sentenza, delle censure mosse ad altra parte del medesimo articolo (il co. 3 dell’art. 71) che consente il riconoscimento in favore delle Residenze Sanitarie Assistenziali accreditate con il SSR, della parte fissa delle spese per il personale in quanto tali spese pur continuando a gravare sul bilancio regionale, sono “senza ulteriori oneri per la finanza pubblica e nell’ambito del budget assegnato in sede di contrattualizzazione”. Il che significa assenza di spese ulteriori. 4 Sempre in tema di rigetto delle doglianze statali in merito al contenimento della spesa per il personale sanitario, la Corte ha, infine, inserito quella relativa all’art. 138 della stessa legge che ha ad oggetto l’aumento annuale del 15% dei limiti di spesa destinati al personale degli enti del SSR, al preciso fine di garantire il funzionamento delle case e degli Ospedali di comunità, in linea con gli obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Ha, cioè, richiamato le norme statali o, meglio, i limiti e le condizioni ben determinate da queste che disciplinano l’ampliamento degli organici e dei conseguenti maggiori esborsi. Alla doglianza governativa che la norma siciliana avrebbe stabilito un “arricchimento” delle categorie normate al di fuori dei limiti percentuali e delle condizionalità previste dalla legge statale, con contestuale ampliamento delle piante organiche del personale, in via autonoma rispetto a quanto stabilisce la normativa dello Stato, la Corte ha risposto con l’infondatezza della proposta questione non avendo rinvenuto il lamentato discostamento dalle previsioni della norma statale interposta, esorbitando dalle proprie competenze, per non aver rispettato i principi di programmazione e contenimento della spesa pubblica quanto ai costi del personale. Ciò in quanto la disposizione, concernente il contenimento degli aumenti del costo del personale, ne prevede un incremento annuo ulteriormente rivedibile al rialzo a determinate condizioni, non contemplate dalla disposizione della Regione Siciliana. Ha, cioè, ritenuto la Corte che la lettura di tale normativa arricchisca la disposizione impugnata attraverso un sistema di richiami alla legge nazionale, consentendo, così di escludere che sia prevista una deroga ai criteri di programmazione statale sul contenimento della spesa riferita all’aumento del costo del personale degli enti del SSR. Tra le norme richiamate, infatti, vi è quella che, dopo aver previsto che “le disposizioni della legge 30 dicembre 2021, n. 234, si applicano, previo espletamento di apposita procedura selettiva e in coerenza con il piano triennale dei fabbisogni di personale, al personale dirigenziale e non dirigenziale sanitario, socio-sanitario, amministrativo, tecnico e professionale reclutato dagli enti del SSN, anche con contratti di lavoro flessibile, anche qualora non più in servizio”, richiama, espressamente, proprio il rispetto dei limiti di spesa di cui alla legge 25 giugno 2019, n. 60. In tal modo alcuna deroga da parte della disposizione siciliana impugnata è stata perpetrata ai danni della norma interposta di cui si denuncia la violazione, in ragione dell’indicato meccanismo di richiamo che vale a tenere ferme anche le modalità di certificazione del parametro di spesa, derivante dai lavori del Tavolo di verifica degli adempimenti previsti dall’Intesa sancita in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome. Fernanda Fraioli
stampa | chiudi
Lunedì 23 DICEMBRE 2024
Ancora sul rapporto Stato-Regioni in Sanità
Una recente pronuncia della Corte costituzionale (n. 197/2024) è intervenuta, ancora una volta, su ciò che è rispettivamente consentito e vietato in materia sanitaria sul rapporto Stato-Regioni. I punti affrontati dal giudice della legittimità sono sostanzialmente tre, ecco quali.
La Corte lo ha detto, senza mezzi termini cassando alcune disposizioni della legge regionale.
Ad innescare la miccia, il ricorso della Presidenza del Consiglio dei ministri che ha sollevato l’illegittimità della previsione normativa regionale dell’adeguamento delle rette sanitarie.
Presidente di Sezione della Corte dei Conti
Procuratore regionale per il Piemonte
© RIPRODUZIONE RISERVATA