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Martedì 10 DICEMBRE 2024
Aborto. La relazione ministeriale fornisce una fotografia sfocata della realtà e delle criticità



Gentile direttore,
finalmente, il 5 dicembre, con oltre un anno di ritardo e dopo averla depositata in Parlamento il 22 novembre, il Ministero della Salute ha reso disponibile sul suo sito la relazione sullo stato di applicazione della legge 194 per l’anno 2022. Dopo le schermaglie del sottosegretario Gemmato, il quale attribuiva il contestato ritardo alla difficoltà di reperire dati che, com’è noto, erano a disposizione del ministero già da un anno, abbiamo assistito al giallo della pubblicazione della relazione sul sito “Pro-choice” prima che sul sito ministeriale. Difficile capire i motivi di tanti ritardi e difficoltà, ma sembra legittimo il sospetto che vi abbia contribuito una certa sciatteria.

Il dato riportato da tutti i mezzi di comunicazione di massa è il lieve incremento del numero delle IVG, registrato, peraltro, anche in altri Paesi nel periodo post-Covid. Vedremo se si tratta di un dato isolato, o di un’inversione di tendenza, commenta il Ministro, guardando forse a chi da tempo, affermando che la diffusione della procedura farmacologica aumenterebbe il ricorso all’aborto, progetta di limitarne l’accesso. Anche in questa relazione si sottolinea il ruolo della contraccezione di emergenza ormonale nell’epidemiologia dell’aborto volontario, auspicando che sia garantita “la corretta informazione (...), specie nelle fasce di età più basse, ricordando che la determina AIFA non stabilisce un limite inferiore di età per l’uso”. Non è ben chiaro cosa si voglia paventare con questa ultima affermazione, che dovrebbe invece lasciare spazio ad un impegno concreto per garantire a tutte e tutti la gratuità dei moderni metodi contraccettivi, compresi i contraccettivi di emergenza, anche non ormonali.

Come nelle relazioni precedenti, i dati sono presentati in forma aggregata, e dunque impossibili da calare nelle singole realtà territoriali. Colpisce però il dato che si riferisce a 4 province -Fermo, Isernia, Caltanissetta e Chieti- in cui non esiste neanche un centro per le IVG, nonostante la possibilità di deospedalizzare le procedure farmacologiche, possibile dal 2020, abbia permesso una notevole semplificazione logistica e organizzativa. D’altra parte, Marche, Abruzzo e Molise sono tra le regioni che presentano una percentuale di emigrazione verso altre regioni superiore al 10%, e gli amministratori di queste regioni sono tra quelli che hanno più volte affermato la loro ostilità ideologica verso la procedura farmacologica; non a caso, in queste Regioni, le percentuali di procedure farmacologiche sono tra le più basse in Italia.

Il caso preoccupante delle quattro province citate e delle relative regioni, tuttavia, non è che la punta dell’iceberg di una condizione comune a molte aree del nostro Paese, nelle quali l’accesso all’aborto farmacologico è fortemente limitato. Una criticità importante, che si sposa con il tema dell’appropriatezza delle procedure, citato più volte nella relazione ma non affrontato nello specifico. L’appropriatezza delle procedure imporrebbe, a parità di sicurezza ed efficacia, e rispettando la libera scelta della persona assistita, di privilegiare la procedura e il setting assistenziale che comportano un minor impegno economico per il sistema sanitario. Eppure, come testimoniano gli esempi appena fatti, non solo l’accesso alla procedura farmacologica è osteggiato, ma a più di quattro anni dall’aggiornamento delle linee di indirizzo per le IVG farmacologiche, solo in tre regioni è ammesso il regime ambulatoriale, e solo in due è possibile l’autosomministrazione a domicilio della prostaglandina. L’associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica ha ha più volte sollecitato il ministro Schillaci ad un impegno concreto su questo tema, con una lettera aperta che non ha mai ricevuto risposta, così come non hanno ricevuto risposta gli inviti all’appropriatezza inviati alla conferenza stato-regioni e ai presidenti e agli assessori alla salute dei consigli regionali inadempienti.

Rilevando che “la richiesta di analisi pre-intervento è diversa tra Regioni e tra servizi IVG all’interno della stessa Regione”, nella relazione si sottolinea che “il progetto CCM coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) predisporrà delle indicazioni alla luce delle più recenti evidenze scientifiche con l’obiettivo di migliorare l’appropriatezza assistenziale al percorso IVG”. Evidentemente è sfuggito che le suddette indicazioni operative sono state pubblicate più di un anno fa, nell’ottobre 2023, e che sarebbe compito del ministero verificare se le regioni si sono adeguate a tali indicazioni, al fine di evitare sprechi per l’esecuzione di esami e procedure inutili e costose. È l’appropriatezza, tanto cara al ministro e tanto preziosa per i sistemi sanitari regionali.

Per quanto riguarda i consultori, la relazione di quest’anno non si discosta dal consueto copia-incolla sull’importanza del loro ruolo nel sostenere le donne e nell’informarle sulle possibili misure per il superamento delle ragioni che hanno portato alla richiesta di IVG. La relazione registra che solo il 76,6% dei consultori effettua counselling per l’IVG e rilascia il documento/certificato necessario per accedere alla procedura. Non è dato sapere dove si trova quel 23,4% di consultori che ignora una parte del compito attribuitogli dalla legge, né le ragioni di questa mancanza, perché i dati aggregati non permettono di andare oltre la superficialità di una generica rilevazione, e rendono impossibile il superamento di una così grave criticità. Come riportato nell’indagine dell’ISS (https://www.epicentro.iss.it/consultori/pdf/sintesi-risultati-28_11_19.pdf), negli anni si è realizzato un progressivo depotenziamento dei consultori, sempre meno e con équipe sempre più ridotte all’osso; a fronte di tale criticità, nella relazione si conclude che “è indispensabile garantire il continuo miglioramento dell’offerta multiprofessionale dei consultori familiari”; eppure, l’esecutivo di cui il ministro fa parte ha sostenuto un emendamento all’art. 44 del PNRR, approvato poi dal Parlamento e dunque ormai legge, che permette di fatto, stravolgendo il contenuto dell’art. 2 della legge 194, di finanziare le organizzazioni pro-vita perché svolgano un compito che sarebbe proprio dei consultori. Per capire l’entità delle risorse sottratte ai consultori pubblici, è bene ricordare che nel 2022 il “Fondo vita nascente” della regione Piemonte ha erogato a tali associazioni 460.000 euro, aumentati a 900.000 nel 2023 e a 960.000 nel 2024.

Infine, una parte considerevole della relazione si occupa di obiezione di coscienza. Nel 2022 si conferma la positiva tendenza alla riduzione tra tutte le categorie professionali, anche se, come denunciato dall’Associazione Luca Coscioni per la Libertà di ricerca scientifica aps, sulla base della ricerca “Mai Dati” di Chiara Lalli e Sonia Montegiove, la mancanza di dati aperti rende impossibile capire l’impatto dell’obiezione di coscienza sull’accessibilità all’IVG. Ma non è questo che interessa al ministro, concentrato invece a ridicolizzare l’impegno professionale di operatrici e operatori, attraverso calcoli che dovrebbero dimostrare l’esiguità del carico di lavoro sostenuto da ciascuna/o. Al di là della difficoltà di far comprendere che l’esecuzione della procedura non è che una parte esigua del lavoro di chi si occupa di interruzioni di gravidanza, senza voler generalizzare la mia esperienza, da operatrice mi permetto di fare una considerazione nel merito, per evidenziare un possibile problema nella trasmissione dei dati da parte delle ASL. Guardando infatti la tabella relativa al Lazio, dove risiedo e lavoro, risulterebbe che, nella struttura dove il carico di lavoro è massimo, ciascun ginecologo eseguirebbe 3,96 IVG a settimana. Confesso che mi è difficile riconoscermi in questa statistica, giacché nel 2022 ho eseguito tra le 10 e le 25 IVG a settimana.

Per quanto riguarda le strutture deputate alla esecuzione delle IVG, nella relazione si sottolinea che “ogni mille nascite si conta un punto nascita, mentre ogni mille IVG si contano 5,3 punti IVG. In proporzione, esistono più punti IVG che punti nascita. In ogni caso (...) la numerosità dei punti IVG appare adeguata, rispetto al numero delle IVG effettuate”. Questa comparazione tra punti nascita e punti IVG, non nuova, risulta francamente incomprensibile, a meno che non si voglia insinuare una lettura ideologica secondo la quale le donne che abortiscono sarebbero addirittura privilegiate rispetto a quelle che partoriscono; infatti, una corretta ed appropriata politica in tema di IVG dovrebbe puntare alla deospedalizzazione e alla territorializzazione delle procedure, cosa che invece non è sempre auspicabile per il parto.

Ancora una volta, dunque, la relazione ministeriale ci fornisce una fotografia sfocata della realtà e delle criticità legate non solo all’applicazione della legge, ma anche al dettato della legge stessa. Prima fra tutte quella relativa agli aborti del secondo trimestre: nella relazione questi trovano pochissimo spazio, e si ignorano totalmente i viaggi all’estero cui sono costrette le donne che chiedono di abortire oltre la ventiduesima settimana, generalmente in seguito a diagnosi tardive di gravi patologie fetali. Negli altri paesi, in questi casi si esegue l’aborto in utero, raccomandato dalle linee guida internazionali dopo 21 settimane e 6 giorni; in Italia, l’art. 6 della legge 194 lo vieta.

A cosa serve, dunque, una relazione, ottenuta oggi, dopo estenuanti sollecitazioni e con oltre due anni di ritardo rispetto ai tempi definiti dalla legge stessa? In 46 anni non è servita certamente a promuovere azioni per migliorare lo stato di applicazione della legge e per minimizzare le inaccettabili diseguaglianze presenti su tutto il territorio nazionale, né per modificare quelle parti della legge che hanno evidenziato le maggiori criticità. In altri paesi, in Europa e nel mondo, le leggi sono state modificate per semplificare l’accesso all’aborto, allargando il diritto. In Italia la destra di governo, al grido “la legge 194 non si tocca” è tutta impegnata ad imporne letture sempre più restrittive, per limitare un diritto che, come ha avuto modo di dire la ministra Roccella, “purtroppo” esiste. Forse il “giallo” della relazione scomparsa sta proprio qui, in quel “purtroppo” che vuole cancellare diritti e spazi di libertà, privando di significato una legge che, pur con tutti i suoi limiti, è ancora una fondamentale conquista di civiltà.

Anna Pompili
ginecologa
consigliera Generale Associazione Luca Coscioni

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