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Mercoledì 04 SETTEMBRE 2024
Residenzialità in psichiatria, una giusta soluzione? 



Gentile Direttore,
la questione della residenzialità appare centrale in una psichiatria che ha sempre meno idee, risorse e personale.

A dispetto di una scarsità di dati attendibili sui suoi effettivi risultati terapeutici e riabilitativi, lo sviluppo di strutture residenziali è stato, fin dall’inizio della psichiatria post 180, un elemento imprescindibile nella organizzazione dei servizi. Un qualcosa che doveva comunque esserci, attingendo da una parte dalla idea che comunque trovarsi in una situazione di umana convivenza, contrastando emarginazione ed isolamento, fosse di per sé terapeutico/riabilitativa, e dall’altra dallo spettro sempre aleggiante che la collocazione in istituzioni alla fine fosse l’unica soluzione praticabile per tanti problemi psichiatrici.

Quando sono comparse le modalità riabilitative comprovate EBM e ci si è accorti che non richiedono luoghi speciali, ma anzi contesti del tutto “normali” e quotidiani, anche nei rari servizi in cui sono state effettivamente utilizzate, non hanno comunque cancellato il privilegio dato ai luoghi, dove conta più dove si trova il paziente, rispetto alle attività che vi si fanno. Le comunità bisogna averle, a ricordarci che comunque la psichiatria è anche (e talvolta soprattutto …) collocazione in luoghi.

Mentre da più parti (ed in taluni disegni di Legge) si sottolinea la progressiva espansione della residenzialità, letta come il fallimento di quella effettiva riabilitazione e piena restituzione ai contesti sociali che la Legge 180/78 sembrava promettere, altri segnalano come sia in atto un progressivo contenimento, appoggiandosi in particolare su taluni dati del Sistema Informativo Salute Mentale (SISM).

E’ necessario pertanto cercare di capire questi dati e che cosa indichino realmente.

Se prendiamo infatti gli anni 2015 e 2022 i dati delle presenze nelle strutture residenziali della psichiatria mostrano a livello nazionale un calo di 995 persone (su circa 29.000 utenti). Questo iniziale entusiasmo viene tuttavia subito spento se notiamo che, dopo una importante flessione nelle presenze fino al 2019, l’andamento dal 2020 in poi è di costante ascesa, con un aumento in tre anni di circa il 10% degli utenti presenti, ed in due anni del 6 % delle giornate di presenza.

Ma vi sono anche altri aspetti, ancora più problematici.

Il primo è la entità di questa “soluzione”. Se si tiene conto che la residenzialità annua riguarda, nell’anno 2022, 5,7 utenti per 10.000 residenti, a fronte di una popolazione di possibili pazienti interessati, che, aggiungendo ai disturbi dell’umore, (13,8/10.000) ed alla schizofrenia (33,6/10.000) anche i disturbi della personalità (12,2/10.000) ha una prevalenza complessiva di 59,7/10.000. Per un utente su 10 in queste patologie la soluzione è residenziale, e che questo aspetto sia in aumento, è un aspetto che deve far riflettere.

Vi è poi una sostanziale incoerenza dei dati del SISM, che fa supporre che il numero complessivo degli utenti presenti ogni anno sia in qualche modo sottostimato. Questa incoerenza emerge se confrontiamo il dato degli utenti presenti con la differenza fra ingressi e dimissioni, che indica valori che non sono allineati come dovrebbero, con il bilancio ingressi/dimessi che mostra la misteriosa presenza di ulteriori 2500 utenti, un altro 10% che si aggiunge al dato complessivo. E’ una differenza importante che mostra se non altro una fragilità in come i dati sono raccolti e soprattutto in come sono monitorati.

L’altro aspetto problematico è quello della spesa. Sempre seguendo ed elaborando i dati SISM emerge che dal 2015 dal 2022, all’interno di una diminuzione generale della spesa della psichiatria per ogni cittadino da 74 euro a 69, l’attività dei CSM ha visto una discesa da 32 a 28 euro pro capite, mentre la spesa residenziale è aumentata da 28 a 29, rappresentando ormai con il 42% la voce più importante nella articolazione della spesa per la salute mentale. Nel 2015 era il 39% e nel 2016 il 37%, trovando al primo posto la spesa per il funzionamento dei CSM. Ora non è più così.

Direi che è difficile negare l’attuale tendenza ad una espansione della residenzialità, e le conseguenze che se ne possono trarre. La prima è che di fatto la tentazione istituzionale, a 45 anni dalla Legge di riforma, rimane comunque molto forte ed è anzi in espansione. La seconda è che non si tratta di ulteriori fondi per questo scopo, ma di fondi sottratti ai Centri di Salute Mentale, creando un corto circuito, per cui la mancanza di adeguati interventi terapeutici favorisce la cronicità e la carenza di risorse, spingendo a scorciatoie dove collocare i pazienti, sostituisce le attività che bisognerebbe fare. La terza è che la residenzialità è in gran parte in mano ai privati, e, per quanto i DSM stabiliscano regole di collaborazione e monitoraggio, alla fine le finalità del servizio pubblico e del profitto privato segnano comunque due strade diverse, ed una Legge come la 180/78 è poco compatibile con una logica del profitto.

Andrea Angelozzi
Psichiatra

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