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Venerdì 26 LUGLIO 2024
L’attesa della cura 

Il problema esiste e sta peggiorando in tutti i Paesi dell’Ocse. Il Governo Meloni è intervenuto con due Decreti Legge, ora convertiti in Legge, ma la nostra storia e l’esperienza degli altri Paesi ci insegnano che anche questo approccio non sarà risolutivo

Premessa
Nella nostra vita le attese sono spesso causa d’incertezza e di apprensione. Questi sentimenti sono amplificati quando ciò che aspettiamo ha a che vedere con la nostra salute, come fare un esame diagnostico o una visita medica o, ancor di più, un ricovero chirurgico.

Anche se dover aspettare non è necessariamente causa di un danno alla salute, o almeno così sembra nella maggioranza dei casi, viene comunque percepito come un inspiegabile ostacolo e come tale rifiutato, con l’effetto di minare la credibilità e la fiducia nel sistema sanitario e nelle persone che ci lavorano.

Nella società contemporanea fiducia, e quindi reputazione, sono elementi determinanti per i servizi per operare con efficacia ed avere un meritato successo. Anche un sistema pubblico, come quello sanitario, non sfugge a queste dinamiche e non basta voler distinguere tra “aspettative” e “bisogni”, indentificando in quest’ultimi solo ciò che è correlato ai corpi ed ai loro malanni. Le aspettative sono diventate bisogni e come tali vanno considerate. Impossibili da negare, esse vanno semmai indirizzate. Istruzione, conoscenza ed alfabetizzazione sanitaria sono gli strumenti per operare in questo campo ed i soli che potranno concretamente mitigare le sofferenze e le insofferenze dei cittadini verso il servizio pubblico.

Alcuni dati sulle liste d’attesa
Diversi Osservatori sulla Sanità concordano sulla stima che nel 2023 il 7,6% della popolazione abbia dovuto rinunciare alle cure mediche per problemi economici, per lunghi tempi d’attesa o difficoltà di accesso di altro genere, in aumento rispetto al 7,0% del 2022. Questo incremento corrisponde a circa 372.000 persone in più, portando il totale a circa 4,5 milioni di cittadini.
Questo incremento – sostiene ISTAT – sarebbe dovuto a liste d’attesa troppo lunghe. Già nel 2019, prima della pandemia, si stimava che circa 1,5 milioni di italiani avevano dovuto rinunciare alle cure per questo motivo, ma nel 2023 il numero è quasi raddoppiato, arrivando a 2,7 milioni di cittadini.

Questa tendenza è attribuibile sia agli effetti diretti e indiretti della pandemia, come il recupero delle prestazioni rinviate per il COVID-19, sia alle difficoltà nell’organizzazione dell’assistenza sanitaria.
Secondo l’OCPI della Università Cattolica come per gli interventi programmati, anche le liste d’attesa per i test diagnostici erano in aumento già molti anni prima della pandemia. Il numero di pazienti in attesa per i 15 test diagnostici più comuni è cresciuto da circa 600 mila nell’aprile 2012 a oltre 1 milione nel febbraio 2020. Dall’inizio della pandemia il numero di pazienti in attesa è cresciuto a un ritmo significativamente più rapido, superando il milione e mezzo a maggio 2022 (+45% dall’inizio della pandemia).

Il Decreto-Legge n. 73 - 7 giugno 2024
Prevede misure urgenti per la riduzione delle liste di attesa delle prestazioni sanitarie ed è stato emanato poco prima delle elezioni europee. È comunque un disegno di legge, che sta facendo il suo iter parlamentare.
Prevede di destinare risorse aggiuntive alle contrattazioni integrative dei professionisti sanitari, introducendo un trattamento economico differenziato che tenga conto della specializzazione, della dirigenza, della tipologia di attività e della carenza di personale in alcune branche specialistiche.
Prevede di inserire il rispetto dei tempi massimi di attesa per l’erogazione delle prestazioni sanitarie fra i LEA, e quindi come criterio per attribuire forme premiali da aggiungere alle risorse ordinarie previste per finanziare il FSN derivate dalla legislazione vigente.

Il Decreto Legge è articolato su tre linee di intervento:

  1. Raccogliere informazioni per avere un quadro più coerente tra esperienze dei cittadini (visione soggettiva) e statistiche oggi disponibili (visione oggettiva, salvo flussi imprecisi);
  2. Organizzare i servizi con un rafforzamento dei centri unici di prenotazione (CUP), un aumento degli orari di erogazione delle prestazioni e l’impiego delle prestazioni in intramoenia;
  3. Incrementare il personale, stabilendo sia allentamenti degli attuali limiti di spesa che incentivi al personale in servizio.

Circa 1 - Viene prevista la realizzazione presso l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (AGENAS), di una Piattaforma Nazionale delle Liste di attesa.
La piattaforma dovrebbe garantire l’interoperabilità con le piattaforme delle singole Regioni e Province Autonome, come stabilito anche dall’obiettivo del PNRR “Potenziamento del Portale della Trasparenza”, e dovrebbe consentire il monitoraggio delle agende e dei tempi di attesa, questo con l’aiuto di verifiche affidate alla stessa Agenas.
Viene istituito un nuovo Organismo di Verifica e Controllo sull’Assistenza Sanitaria presso il Ministero della Salute che dovrebbe, nelle intenzioni del Governo, rafforzare i controlli effettuati da parte del Sistema Nazionale di Verifica e Controllo sull’Assistenza Sanitaria (SIVeAS).
Avrà il compito di verificare l’erogazione dei servizi e delle prestazioni sanitarie e il corretto funzionamento del sistema di gestione delle Liste di attesa.

Circa 2 – Si prevede un rafforzamento dei CUP, stabilendo che tutti gli erogatori sanitari, sia quelli pubblici che quelli privati “accreditati”, debbano mettere a disposizione dei CUP regionali o infra-regionali e/o aziendali, gli slot delle loro visite specialistiche e diagnostiche per garantirne la fruizione da parte dei pazienti.
Verrà attivato un sistema digitale che permetta prenotazioni, pagamenti e disdette delle prenotazioni in modalità da remoto. Le aziende sanitarie non potranno più sospendere autonomamente le attività di prenotazione.
Qualora i tempi previsti dalle classi di priorità per l’erogazione dei servizi non possano essere rispettati, si potrà usufruire dell’attività libero-professionale intramuraria, per altro già prevista dal DL 124 del 1998. Verrà mantenuto però un limite per le attività in intramoenia: i singoli medici non potranno superare il numero di quelle che erogano col Servizio Sanitario Nazionale.
Verrà potenziata l’offerta assistenziale per visite diagnostiche e specialistiche estendendo la fascia oraria di erogazione ed includendo anche i giorni di sabato e domenica. Un provvedimento per altro già previsto nel Piano Nazionale di governo delle Liste di attesa 2019-2021 e che ha dimostrato nei fatti non poche difficoltà di attuazione e scarso impatto.

Circa 3 - Per le risorse di personale, il Decreto prevede un incremento del limite di spesa per il personale sanitario del 10% su base annua (e di un ulteriore 5% per le Regioni che ne faranno richiesta).
Dal 1° gennaio 2025 sarà poi abrogato il tetto di spesa, che verrà sostituito da una nuova metodologia di definizione del fabbisogno di personale sanitario.
Si cerca così di stimolare l’offerta di prestazioni incentivando il personale con l’introduzione di un’imposta sostitutiva dell’Irpef sulle prestazioni aggiuntive del personale sanitario, pari al 15%; il costo della misura viene stimato in circa 250 milioni di euro.

Criticità e punti deboli
Per l’applicazione del Decreto, tenendo conto dei diversi contesti regionali, ci sono però criticità di rilievo da gestire oltre le disponibilità finanziarie e le risorse professionali carenti:

Aspettative e bisogni
Le aspettative dei pazienti verso la medicina possono essere “infinite” ma fortunatamente non sono sempre “bisogni” reali. Il tema è molto delicato in quanto comporta considerazioni etiche e politiche e ripropone l’EBM, Evidence Base Medicine, come base della appropriatezza prescrittiva. Nel concetto di appropriatezza clinica è quindi insito il concetto di applicazione delle buone pratiche e di aderenza a linee guida basate sulle evidenze.

Dell’espressione buone pratiche” non esiste una definizione univoca ed esaustiva[1], ma si può utilmente far riferimento a quella fornita da AGENAS[2], condivisa con il Ministero della Salute e con le Regioni e PP.AA.:

… sono buone pratiche per la sicurezza dei pazienti interventi/esperienze attuati dalle organizzazioni sanitarie che abbiano dimostrato un miglioramento della sicurezza dei pazienti (suddivisi per tipologia in “raccolta dati”, “coinvolgimento del paziente”, “cambiamenti specifici”, “interventi integrati”) che rispondono ai seguenti criteri:

Appropriatezza prescrittiva
Confrontare i tempi d’attesa nei diversi Paesi è di scarsa utilità a causa delle diverse metodologie e definizioni utilizzate. Confrontando l’Italia con i 15 Paesi OCSE che rilevano questi dati, nel 2022 siamo quelli con i tempi più brevi: una mediana di 24 giorni (ridotta di 5 giorni rispetto al 2013).


Questo risultato, sorprendente, trova però una spiegazione nel dataset di riferimento che non include i tempi di attesa per prime visite specialistiche, esami diagnostici, visite di controllo e screening oncologici che risultano essere le voci più critiche. In particolare, queste quattro prestazioni rappresentano oltre il 60% del totale delle segnalazioni sulle criticità relative alle tempistiche delle Liste d’attesa.
Queste osservazioni confermano le difficoltà di mappatura del fenomeno e l’importanza di raccogliere informazioni più dettagliate, proprio uno degli obiettivi del DL 73/2024.

Decreto ministeriale, detto “Lorenzin”, del 9 dicembre 2015 e nuovi LEA
Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 20 gennaio 2016, Il decreto elencava le condizioni di erogabilità e le indicazioni di appropriatezza di prestazioni di alcune specifiche branche specialistiche: Odontoiatria, Genetica, Radiologia diagnostica, Esami di laboratorio, Dermatologia allergologica, Medicina nucleare. Le reazioni del mondo medico furono vivaci.

Pochi mesi dopo, il 15/07/2016 furono presentati i nuovi LEA e venne abrogato il “Decreto appropriatezza”. Niente sanzioni per medici e maggiore libertà prescrittiva.
Fu di fatto un dietrofront sul “Decreto appropriatezza”. La novità, prevista nei nuovi LEA, era il risultato di una concertazione tra Ministero della Salute e FNOMCeO.
Venne presentato anche un “Manifesto sull'appropriatezza”, realizzato dal Ministero della Salute e dalla FNOMCeO, diffuso poi in tutti gli studi medici, ospedali e sedi delle ASL per informare i cittadini sulla novità introdotte dai nuovi Livelli Essenziali di Assistenza … Ad anni di distanza osserviamo però che c’è ancora strada da fare … per una costante azione di recupero dell’”appropriatezza”.

La variabilità d’implementazione dei PDTA
In base al Report su “Conoscere i percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (PDTA) regionali approvati in Italia per affrontare il cambiamento della assistenza di prossimità: analisi quali-quantitativa del database PDTA Net” della Fondazione Ricerca e Salute (ReS), dal 2005 al 2021 sono stati approvati 729 PDTA regionali: 404 su patologie croniche a elevata prevalenza e 325 su malattie rare. I PDTA delle malattie croniche, redatti maggiormente da Piemonte (45 PDTA), Campania (34) e Toscana (33), interessano soprattutto diabete (19), broncopneumopatia cronica ostruttiva (15), scompenso cardiaco (13), ictus, sclerosi multipla e neoplasie del colon-retto (12 ciascuna), neoplasie della mammella (11), demenza e insufficienza renale cronica (10 ciascuna).

Se si va a verificare i contenuti dei PDTA redatti si scoprono molte incongruenze, ovvero, esiste sempre una parte generale di riferimento a Linee Guida Internazionali e nazionali e, in alcuni casi anche regionali, ma mancano spesso dati di contesto quali l’analisi dei setting aziendali che il paziente dovrà attraversare nel suo percorso di cura e la loro capacità di offrire “garanzie” nel tempo organizzative, professionali, di qualità, sicurezza e prevenzione del rischio.

Questa parte dei PDTA è quella che li rende implementabili o meno e li caratterizza come strumenti di ottimizzazione organizzativa e assistenziale e li fa essere, come ribadito in letteratura scientifica, “strumenti di contesto” del singolo team assistenziale che li usa e manutiene nel tempo. Inoltre si riscontra una sostanziale inapplicabilità legata al fatto che spesso questi strumenti non nascono dalle comunità di pratica che li devono applicare, ma vengono proposti dall’esterno in ottemperanza ad un obbligo esclusivamente formale

Le prestazioni sanitarie tra pubblico e privato
Secondo uno studio della Università “Bocconi” le percentuali di visite specialistiche e accertamenti diagnostici prescritti da un medico di famiglia o da uno specialista, che sono state prescritte ed effettuate nella sanità privata sono numerose.



In Italia, i consumi sanitari privati sono un fenomeno strutturale e crescono in misura proporzionale all’aumento del reddito: è questa una prima evidenza di uno studio dell’Osservatorio sui Consumi Privati in Sanità (OCPS) di SDA Bocconi School of Management.
La spesa privata pro capite più elevata si registra nelle Regioni a reddito più alto e in cui il sistema sanitario pubblico funziona meglio, come la Val d’Aosta e la Lombardia.

Per quel che riguarda la ripartizione della spesa tra “pubblico” e “privato”, la quota di spesa sostenuta direttamente dai cittadini risulta elevata soprattutto per l’acquisto di apparecchi terapeutici (74 per cento del totale) e di prodotti farmaceutici (38 per cento), per l’assistenza ambulatoriale (39 per cento) e per l’assistenza ospedaliera di lungo termine (34 per cento).
Al contrario, l’assistenza ospedaliera in regime ordinario e quella in day hospital risultano prevalentemente a carico della sanità pubblica (rispettivamente 96 e 92 per cento).

Secondo uno studio CENSIS recente il rapporto tra “pubblico” e “privato” è quello che si evince dalla due tabelle a seguire. Di fatto la sanità privata, sia essa “accreditata” o no, prevale in molte attività specialistiche e diagnostiche.


(Fonte: Rapporto CENSIS 2022)

Gli slot per visite specialistiche e prestazioni diagnostiche sono fuori totalmente dalle disponibilità dei CUP regionali o aziendali e quindi non prenotabili, pur dovendo per legge “integrare” l’offerta “pubblica”.
Sempre per legge è previsto, da anni, che le strutture private “accreditate” che non mettano a disposizione dei CUP regionali e aziendali (ASL di riferimento) possono essere sanzionate con la perdita dello stato di soggetti “accreditati”.
Non ci risulta che qualche SSR abbia mai applicato tali norme già esistenti da ben prima il Decreto-Legge n. 73 del 7 giugno 2024.

Difformi sistemi di classificazione dei pazienti nei SSR
Come è noto la valutazione multidimensionale è parte fondamentale del processo di presa in carico globale del soggetto. In particolare, si tratta del momento valutativo che esplora in maniera sistematica le diverse dimensioni della persona nella sua globalità e multidimensionalità ed è anche il fulcro di qualsiasi nuova policy secondo l’approccio “One Health”.

Nel nostro Paese le schede di valutazione multidimensionale sono gli strumenti utilizzati dagli operatori dei servizi sociosanitari per definire le caratteristiche della situazione di bisogno dell'utenza. La caratteristica peculiare di questi moduli è quella di consentire l'analisi di varie dimensioni relative alla condizione della persona esaminata, e di permettere una conoscenza articolata della stessa.

Dalla valutazione deriva il PAI, Piano Individuale Assistenziale e, in vigenza di PNRR, il Piano Individuale di Salute con conseguente eventuale reclutamento del paziente in un PAC e in un PDTA integrato.
L’esigenza di rendere omogenei gli strumenti di valutazione multidimensionale è da tempo una delle priorità per la gestione dei servizi sanitari e socio-sanitari.
Necessità più evidente dopo l’emanazione dei Nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA).

La VMD avviene infatti sulla base di strumenti validi scientificamente che sono diversi da Regione a Regione, e che possono esserlo anche all’interno della Regione stessa. Le Regioni hanno cercato di uniformare a livello regionale gli strumenti valutativi senza però risultati significativi.
In quasi tutti i principali Paesi OECD i sistemi di valutazione tendono ad essere unici e uniformi a livello nazionale. Perché in Italia non sembra possibile? Questa difformità regionali, anche “aziendali” spesso, è causa di disomogeneità prescrittive e genera variabilità di approccio clinico - assistenziale e, di conseguenza, inefficienze nelle agende di erogazione delle prestazioni necessarie.

Sistemi di governance ancora basati su modelli a “silos” e solo prestazionali.
Un’altra criticità che concorre a generare le liste di attesa è quando i modelli organizzativi tradizionali che generano le attività assistenziali non vengono messi in discussione.
Permangono modelli di organizzazione a “silos“verticali” e ancora poco diffuse sono le esperienze di integrazione dei servizi per “processi di cura” …

Gli ospedali organizzati con piattaforme a “intensità di cura” sono pochi e non costituiscono una tendenza innovativa diffusa. In altri Paesi OECD siamo già oltre, con la sperimentazione di modelli di “ospedali senza letti” o “ospedali senza mura”.
Piuttosto che continuare a discutere in merito ai rapporti tra cure ospedaliere e cure territoriali sarebbe il momento di focalizzare a quali modelli di ospedale vogliamo fare riferimento così come quali principi vogliamo adottare nel definire le comunità di persone e le cure che intendiamo rivolgere a loro.

Non è poi difficile perché esperienze ed evidenze se ne trovano numerose. Basta decidere e farlo, tenendo sì conto delle autonomie decisionali delle diverse Regioni, ma prima di tutto delle pratiche riconosciute in letteratura come quelle migliori.

Se anche in mercati “privati/privati” come quello USA siamo alla sperimentazione diffusa di queste innovazioni ci saranno motivazioni cogenti … sicuramente una logica “profit” esasperata, ma anche esigenze di ottimizzazione dei modelli operativi, di diffusione delle nuove tecnologie, dei cambiamenti organizzativi e gestionali basate su studi ripetuti delle casistiche cliniche. La Joint Commission Foundation elabora da quasi cento anni i dati clinici, assistenziali e gestionali, verifica l’operatività in termini di efficacia e efficienza delle innovazioni cliniche, diagnostiche e tecnologiche e cambia, aggiornandoli, i suoi set di indicatori e di standard in base ai quali certifica i 18.000 ospedali USA annualmente.

Noi importiamo spesso questi modelli, come strumenti di ottimizzazione per efficientare i nostri SSR e le nostre Aziende sanitarie o almeno dovrebbe essere così.
Recuperare sprechi e margini gestionali per sistemi basati su una molteplicità di erogatori privati si traduce in maggiori margini di profitto. Per noi invece in maggiori opportunità di sostenibilità di “universalismo” ed “equità” … o almeno così dovrebbe essere.

Altro problema, valorizziamo le attività erogate in base a criteri essenzialmente “prestazionali” e non valutiamo il percorso di cura del paziente, la sua centralità e la sua soddisfazione. Modelli più avanzati, basati su approccio “value-based” sono ancora a livello di poche e disperse sperimentazioni.
Vediamo quindi che ci sono margini importanti di ottimizzazione e di recupero di attività verso i pazienti e di conseguente riduzione delle Liste di attesa, ma che l’approccio richiede interventi che vanno ben oltre quelli ipotizzati dal decreto legge in discussione.

Misurare le liste d’attesa
Un aspetto che stenta ad affermarsi è quello di un criterio di misurazione della domanda valido ed omogeneo.
Oggi grazie alla applicazione sistematica (con qualche variabilità tra le regioni) della ricetta dematerializzata si può osservare in tempo reale la vera domanda ed organizzare la risposta.

Un’esperienza della Regione Toscana, che data al 2019, mostrò che solo il 70% degli accertamenti richiesti dai medici entravano nelle agende dei CUP Aziendali e non ci sono ragioni per pensare che così non avvenga in molti luoghi. Se quindi gli Assessorati regionali quando misurano le attese lo fanno facendo riferimento ai soli pazienti registrati dai CUP il fenomeno rischia di essere sottostimato rispetto alla realtà.

Sfuggono, ad esempio, alla misurazione coloro a cui viene proposta una prima visita in tempi e luoghi che non accettano o quelli a cui viene comunicato che un’agenda è piena e momentaneamente bloccata.

In considerazione di ciò, in Toscana venne adottato un nuovo indicatore, poi riconosciuto anche a livello ministeriale: il catchment index, ovvero il rapporto fra il numero di persone con ricetta per una data prestazione che entrano in CUP e il numero totale di ricette formulate per quella prestazione nello stesso arco temporale.

In letteratura si definisce come fisiologica un 15% di perdita di casi. Riguardano in genere quei pazienti che dopo la richiesta del loro MMG decidono di andare direttamente da un professionista o da una struttura privata di sua fiducia Quando però il catchment Index scende sotto il 60%, ed in alcune regioni accade, la situazione è davvero critica

In base al monitoraggio affidato ad Agenas, come prevede il Decreto Legge approvato in questi giorni, il Ministero della salute è convinto che misureremo meglio la situazione reale. L’attuale fragilità dei flussi informativi provenienti dalle varie Regioni non si risolverà cambiando il punto d’arrivo delle informazioni. Se i meccanismi di raccolta non saranno solidi ed attendibili, come oggi non sono, il successo dell’operazione sarà improbabile.

Considerazioni ulteriori e conclusioni
Uno studio OCSE dimostra come in alcuni dei Paesi con una spesa sanitaria pro capite maggiore della media OCSE i tempi di attesa non costituiscano un problema rilevante, mentre in altri, nonostante livelli di spesa ingenti, si trovano in difficoltà così come i Paesi con una spesa inferiore alla media.
Anche in Paesi in cui vi è un numero di medici in rapporto alla popolazione maggiore della media OCSE, vedi l’Italia, i tempi di attesa restano una questione rilevante, così come avviene nei circa due terzi dei Paesi con una proporzione di medici inferiori alla media.

Meno evidente appare l’influenza sulle liste d’attesa in funzione della capacità produttiva delle strutture ospedaliere.
Questo per ribadire la complessità del problema liste di attesa, che non è riducibile al solo tema dell’adeguatezza delle risorse finanziarie e professionali.

Molti Paesi hanno tentato di affrontare il problema delle liste d’attesa adottando diverse politiche con risultati contrastanti. I tentativi sul fronte dell’offerta per aumentare la produttività degli erogatori sono stati sostanzialmente:

  1. Utilizzare finanziamenti mirati per ridurre i tempi di attesa;
  2. Usare incentivi monetari per il personale sanitario per remunerare le ore aggiuntive di lavoro;
  3. Introdurre schemi di finanziamento delle strutture “pay-for-performance” (p4p) basati sul numero effettivo di pazienti trattati.

La prima misura è stata la più utilizzata nei Paesi OCSE ma non ha mai portato ai risultati sperati. Questi programmi hanno rappresentato spesso erogazioni temporanee di fondi che miglioravano la situazione solo nel breve termine. Inoltre, la dimensione di questi finanziamenti è generalmente contenuta e dunque insufficiente per aumentare significativamente la produttività nel medio-lungo termine.

La seconda e la terza misura forniscono un effettivo incentivo ad aumentare il numero degli interventi, tuttavia gli studi empirici hanno dimostrato come si riesca ad ottenere una riduzione delle liste d'attesa solo se gli stimoli alla produttività sono accompagnati da misure come l'aumento della capacità produttiva in termini strutturali e di personale.

Dal lato della domanda si sono proposte diverse soluzioni, prima fra tutte le raccomandazioni all’appropriatezza prescrittiva e l’uso di sistemi di prioritizzazione, che però dipendono quasi esclusivamente dall’autonoma scelta dei singoli medici: si deve fornire una valutazione dell’urgenza del paziente ma non siamo certi che ciò sempre avvenga secondo linee guida e prassi condivise
A questi sistemi è stata spesso combinata una “garanzia di tempo di attesa massimo”, soluzione che viene giustificata dall’idea che ciò possa indurre un miglioramento dell’efficienza produttiva del sistema sanitario.
Il rischio è che si crei un paradosso nel momento in cui pazienti con priorità più bassa devono essere fatti avanzare rispetto a quelli con priorità più alta solo per rispettare i tempi stabiliti.

Altre politiche di contenimento si sono concentrate poi sull’affiancare ad una “garanzia di tempo massimo di attesa” sistemi basati sul raggiungimento di obiettivi da parte dei soggetti erogatori, con politiche sanzionatorie in caso di mancato raggiungimento.

È giusto però ricordare un caso di successo, un’esperienza originale perché incentrata sull’equilibrio tra domanda ed offerta, non considerate separatamente e descritta nel libro di Carlo Tomassini per Il Pensiero Scientifico “Liste d’attesa in sanità – la soluzione del Open Access”. Il metodo, chiamato Open Access, è stato implementato a Pisa e provincia (250.000 abitanti) ed è in grado di garantire la prestazione entro i tre giorni successivi a quello della richiesta da parte del medico di medicina generale: un modello concreto anche per l’applicazione del nuovo PNGLA 2019-2021.
Tomassini, per dieci anni Direttore Generale della AOU di Pisa, e successivamente dell’assessorato Salute della regione Toscana, descrive analiticamente la costruzione del sistema di gestione dell’offerta e della domanda delle prestazioni. I concetti organizzativi sono semplici ma, se applicati con metodo e cura, permettono di ottenere risultati comunemente considerati irrealizzabili.

La domanda di prestazioni espressa da un territorio è unica mentre l’offerta di prestazioni è spesso molteplice, frammentaria e non coordinata. È pertanto necessario, senza modificare l’autonomia organizzativa e strutturale del sistema, far si che i vari erogatori producano un’unica offerta per quest’unica domanda.
La conoscenza della domanda è alla base della programmazione dell’offerta, ed è legata ai medici di medicina generale e ai pediatri di libera scelta presenti sul territorio La domanda di prestazioni deve arrivare a un Centro Unico di Prenotazione (CUP). I modelli tradizionali di pianificazione o, più propriamente, di messa in lista, che si definisce scheduling, tendono a proteggere la capacità del giorno corrente, spingendo una gran parte della domanda di oggi nel futuro. Nel modello “Open Access” invece si protegge la capacità del futuro cercando di spingere la domanda del giorno nel giorno.

Vi sono due flussi di pazienti: quelli per cui il medico curante richiede una visita specialistica o un accertamento e quelli per cui è necessario un successivo approfondimento. I due flussi hanno esigenze diverse, specie nella dimensione del tempo di erogazione della prestazione; pertanto bisogna costruire percorsi differenziati che non permettano mai di provocare sovrapposizioni.
Il primo accesso deve essere visto il più presto possibile; è in gioco la potenziale sicurezza per lo stato di salute del paziente e il sistema Open Access, messo a punto nella realtà pisana, consente di attuarlo nel giro di tre giorni.

Per l’altro flusso non esistono “liste di attesa”, ma solo “liste di prenotazione”, vale a dire un appuntamento per un controllo/follow up che il paziente riceve non andando nuovamente al CUP, semmai dopo dover avere un passaggio dal curante, ma al termine della visita specialistica, con una diretta “presa in carico”, realizzata dallo stesso medico che propone l’ulteriore approfondimento o controllo.

A volte, purtroppo, la retorica del legislatore rischia la farsa. Infatti nella Legge approvata pochi giorni fa si prevedono assunzioni sia al Ministero che nei territori per gestire quanto normato, come segue:

  1. Assunzioni al ministero della sanità: un Direttore Generale, 3 Direttori e 20 impiegati per verificare che le Regioni facciano quanto previsto nella Legge approvata. È scritto che saranno assunzioni in deroga al blocco ed effettuate con fondi del Ministero (4 milioni), cioè dal FSN;
  2. È consentito un superamento del tetto pari al 15%, ma del 15% dell'incremento previsto dal Decreto Calabria, che era del 5%. Di conseguenza il superamento del tetto è pari allo 0,75%...
  3. Chi lavorerà per la riduzione delle liste di attesa pagherà solo il 15% di tasse. Questo comporterà un minor gettito di 580 milioni, che sarà ripianato attraverso una "diminuzione di pari importo" del FSN.

In conclusione, è superfluo dire che ci sarà ancora molto da lavorare, tutti ne sono consapevoli. anche a livello di ricerca sul campo, e sicuramente ci sono concause complesse quali, ed oltre, quelle evidenziate in questo articolo. Però ci sono anche esperienze che hanno dimostrato che il problema può essere anche gestibile.

La raccomandazione finale è però quella d’intervenire sempre non in una logica “short time”, ma di cambiamenti organizzativi e gestionali duraturi e persistenti.
Non si tratta solo di questioni tecniche, ma anche sociali e politiche, perché hanno a che vedere con il percepire di vivere o meno in uno Stato con servizi all’altezza del compito, di essere cittadini e contribuenti di una società civile, dignitosa e solidale.

Silvia Scelsi,
Presidente ASIQUAS, Responsabile Professioni Sanitarie IRCCS “Gaslini” Genova
Giorgio Banchieri,
Segretario Nazionale ASIQUAS, DiSSE, Università “Sapienza”, Roma;
Antonio Giulio de Belvis,
CDN ASIQUAS, Professore Università “A. Gemelli”, Roma
Andrea Vannucci
,
Membro CTS ASIQUAS, Docente DISM, Università Siena.

[1] Labella B, Caracci G., Tozzi Q. e De Blasi R: L’Osservatorio Buone Pratiche di AGENAS. In Monitor (Trimestrale dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) Anno XI numero 31 2012 pag 21-34

[2] Tozzi Q., Caracci G., Labella B.: Buone pratiche per la sicurezza in sanita. Il Pensiero Scientifico Editore (febbraio 2011) pag. 41.

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