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Venerdì 26 LUGLIO 2024
La sentenza della Consulta sul payback ha fatto chiarezza ma non ha risolto i problemi

Saranno solo le trattative che da essa scaturiranno a dirci quali dei due contendenti avrà a dolersi della peggior sorte, posto che in gioco è il benessere della collettività che, però, assume una differente configurazione a seconda del punto di vista adottato

Le sentenze della Corte costituzionale sono di 4 giorni fa, ma la legge è del 2015. L’argomento è il medesimo: il payback. Termine non noto ai più con il quale si intende il meccanismo che impone alle aziende che forniscono dispositivi medicali alle Regioni ed ai relativi sistemi sanitari di poter sforare il tetto di spesa.

Possiamo sintetizzare l’art. 9-ter del d.l. n. 78 del 2015 che lo prevede, in questo modo: “nel caso in cui le aziende fornitrici di dispositivi medici non adempiano all'obbligo del ripiano di cui al presente comma, i debiti per acquisti di dispositivi medici delle singole regioni e province autonome, anche per il tramite degli enti del servizio sanitario regionale, nei confronti delle predette aziende fornitrici inadempienti sono compensati fino a concorrenza dell'intero ammontare”.

Ma per uscire dal tecnicismo più stringente diciamo che con queste disposizioni si era fissato un tetto alla spesa regionale per i dispositivi medici ed un obbligo per le imprese che forniscono i dispositivi ai vari SSR, in caso di superamento del tetto da parte delle Regioni, di contribuire parzialmente al ripiano di detto sforamento.

La legge istitutiva, però, non è l’unica. Successivamente, nel 2022 nel suddetto comma 9-ter è stato aggiunto il comma 9-bis che per gli anni dal 2015 al 2018 ha espressamente previsto la procedura di determinazione dell’ammontare del ripiano a carico delle singole imprese.

Mentre nel 2023, il d.l. n. 34, all’art. 8 ha istituito un fondo statale da assegnare pro-quota alle Regioni che in questo triennio abbiano sforato il tetto di spesa.

Queste norme hanno consentito alle imprese fornitrici di dispositivi di versare solo il 48% della rispettiva quota di ripiano, a condizione di rinunciare ad ogni contestazione in giudizio dei provvedimenti relativi all’obbligo di pagamento.

Da qui, il redde rationem doveva pur arrivare ed, in effetti, è arrivato: più di un miliardo di euro che le aziende devono alle Regioni per il periodo dal 2015 al 2018.

Una manna dal cielo per gli enti, una disdetta per le imprese che le Regioni con appositi provvedimenti hanno provveduto a richiedere a queste le quali, prontamente, hanno impugnato davanti al TAR che ha sollevato questione di legittimità costituzionale sulle quali la Corte ha precisato che, con specifico riferimento al periodo 2015-2018, è il legislatore ad aver disciplinato appositamente la materia del ripiano dello sforamento dei tetti di spesa.

Più precisamente, la Corte costituzionale con la sentenza n. 139 del 22 luglio 2024 emessa a seguito di ricorso della Regione Campania si è occupata delle disposizioni di cui al d.l. 34 del 2023 statuendone l’incostituzionalità nella parte in cui hanno condizionato la riduzione dell’obbligo a carico delle imprese di versare il 48% alla rinuncia preventiva al contenzioso che è stato, così esteso anche a quelle che a tale obbligo non si erano assoggettate.

Con l’altra sentenza, la n. 140 di pari data, dietro rimessione da parte del TAR del Lazio, ha dichiarato l’infondatezza delle questioni di costituzionalità sollevate con riferimento all’art. 9-ter del d.l. n. 78 del 2015 che delimita la previsione favorevole agli enti regionali al periodo 2015-2018 sancendo che “in relazione a tale periodo, il legislatore ha dettato una disciplina apposita per il ripiano dello sforamento dei tetti di spesa, e le Regioni, con propri provvedimenti, hanno chiesto alle imprese le somme da esse dovute”.

La Corte costituzionale con le due recentissime sentenze ha statuito, quindi, che il meccanismo del payback “non risulta né irragionevole, né sproporzionato” perché è stato ritenuto “un contributo solidaristico, correlabile a ragioni di utilità sociale, al fine di assicurare la dotazione di dispositivi medici necessaria alla tutela della salute in una situazione economico finanziaria di grave difficoltà” sancendo, altresì, che il trattamento di favore del 48% si applichi a tutte le aziende non soltanto a quelle che hanno assunto l’impegno inziale di rinunciare in via preventiva al contenzioso giudiziario.

La non irragionevolezza ha fondato le proprie basi sul non rilevato contrasto con l’art. 41 – che tutela, come libera, l’iniziativa privata che non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all'ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana – e con la definizione dell’ammontare che le imprese devono per il periodo di riferimento 2025-2018 come “un contributo solidaristico, correlabile a ragioni di utilità sociale, al fine di assicurare la dotazione di dispositivi medici necessaria alla tutela della salute in una situazione economico-finanziaria di grave difficoltà”.

La non sproporzione, invece, è stata ritenuta sussistente – dopo il riconoscimento della riduzione del 48 % incondizionatamente a tutte le imprese ad opera della precedente sentenza – perché non in contrasto con l’art. 23 della Costituzione per l’imposizione di prestazioni patrimoniali.

Ciò, vieppiù rafforzato dall’affermazione dell’irretroattività della disposizione censurata in quanto la succitata norma del 2022 “si è limitata a rendere operativo un obbligo di ripiano a carico delle imprese fornitrici, senza influire, in modo costituzionalmente insostenibile, sull’affidamento che le parti private riponevano nel mantenimento del prezzo di vendita dei dispositivi medici”.

Tanto da portare Confindustria a ritenere che ciò causerà una “crisi irreversibile” dal duplice aspetto: da un lato, l’impossibilità per molte aziende di sostenere il saldo richiesto con correlative misure di riduzione del personale attraverso cospicui licenziamenti e dall’altro, l’impossibilità di continuare a fornire i dispositivi per il blocco dell’attività con ripercussioni proprio sull’unico aspetto che merita considerazione massima, oltre a incarnare la vera ratio della legge istitutiva del 2015, ovvero la tutela della salute dei pazienti.

Il paventato rischio di fallimento per oltre 2.000 aziende italiane con correlativa perdita di 200.000 posti di lavoro ha indotto le PMI sanità a chiedere al governo la convocazione, in tempi brevi, di un tavolo di crisi.

Saranno solo le trattative che da esso scaturiranno a dirci quali dei due contendenti avrà a dolersi della peggior sorte, posto che in gioco è il benessere della collettività che, però, assume una differente configurazione a seconda del punto di vista adottato.

Se, infatti, lo si guarda da quello delle imprese, la sofferenza è duplice perché accanto alla sussistenza propria delle PMI, abbiamo una parte cospicua di lavoratori che, in caso di licenziamento andrebbero ad ingrossare le fila dei disoccupati con correlativo aggravio per il bilancio dello Sato quantomeno per gli assegni o le indennità da corrispondere; se lo si guarda da quello delle Regioni, a soffrirne sarebbero i bilanci propri, endemicamente non proprio floridi.

In ogni caso il danno sarebbe all’intera collettività amministrata la quale non potrebbe più giovarsi di un’assistenza medica di tutto rilievo come finora fatto.

Fernanda Fraioli
Consigliere della Corte dei conti

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