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Giovedì 04 LUGLIO 2024
Salute mentale e carceri, abbandonare le posizioni aprioristiche o ideologiche



Gentile Direttore,
un intervento su queste pagine (di Iannucci e Brandi) in tema di strutture carcerarie, psichiatriche e salute mentale, ancorché non in tutto condivisibile, ha rimescolato un po’ le carte, da troppo tempo date dal novero di operatori che vede nell’abolizione della non imputabilità l’argomento speculativo preferito (forse per le sue caratteristiche di scorciatoia concettuale a pronta beva) così come l’improvvisa intuizione di inviare in carcere (le nostre, attuali, carceri…) una serie di pazienti difficili (oppure ipotizzando delle Residenze Sanitarie Detentive, con polizia penitenziaria e apicalità sanitaria, in un laocoontico viluppo di responsabilità e profili giuridici, nonché di contraddizioni in essere, che sorprendono).

L’articolo smuove lo stagno forse perché rappresenta anche una risposta (informata, piccata) di chi nelle carceri ci lavora o che asseritamente le conosce e, non scandalizziamoci, sente a sua volta uno “scarico” dirigersi da quella parte. Viene anche chiarito come parlare di pazienti antisociali come usuali ospiti delle REMS sia ancora una volta la facile semplificazione di concetti (in questo caso numerici e diagnostici contemporaneamente) che dovrebbero vedere invece riconosciuto il rango della loro complessità.

Altro (attuale) luogo comune toccato nell’intervento è quello dei rei folli, portando l’angolatura del ragionamento sul disagio vero delle carceri e la realtà concreta, non propalata dall’acritico rimbalzare di idee semplificate, delle condizioni (non solo) mentali della popolazione detenuta.

Luca Santa Maria, in “Frammenti di un discorso sulla giustizia malata” (DPU, 7/8, 2020), svelava senza sconti, e con il merito di coinvolgere direttamente il corpo professionale di cui fa parte, il dramma delle carceri italiane, l’ingiustizia, l’ignoranza e le disuguaglianze che le popolano.

Morale: spero che cessino le diatribe interne alla nostra disciplina che cercano di spostare problemi da un contenitore all’altro (contenitori non solo spaziali ma anche concettuali), e che una maggiore informazione e responsabilità si possano accompagnare a una limitazione degli atteggiamenti (quasi esclusivamente) allarmistici tipici di questo periodo storico. Nel quale ulteriori recriminazioni, come lo scandalo circa la sussistenza della posizione di garanzia oppure in riferimento agli atteggiamenti “deleganti” delle forze dell’ordine e dell’autorità giudiziaria, concetti che si ripetono ormai allo sfinimento, con alcuni aspetti di verità per altro, alla fine mostrano un po’ la corda della litania.

Si tratta, cioè, di portare una discussione adeguatamente informata ad affrontare concetti vasti e difficili, e di non semplice soluzione, senza cercare sintesi estreme e seducenti che non possono avere ragione di sistemi articolati e complessi, anche se seducono perché facilmente edibili.

In tema di imputabilità, l’abolizionismo si infrange contro pilastri giuridici ed epistemologici che per una volta non starò a ripetere, anche se operatori stanchi e sfiduciati vi intravvedono una magica soluzione.

Infine, nell’intervento si ricordano con (mio) piacere tre ulteriori punti. Il primo: mentre i capponi di Renzo si prendono a beccate, il vuoto legislativo chiarito dalla Suprema corte in riferimento alla L. 81 resta tale e, come si sa, ogni vuoto tende comunque a riempirsi, e il Ministero della Giustizia, definita la necessità del suo rientro in partita, potrebbe trovarvi troppo poche resistenze; mentre il secondo è il richiamo alla Raso, vera cartina di tornasole del populismo concettuale. Sentenza complessa, comunque chiara e lineare, che apprezza (nel senso di comprendere, come primo passo) solo chi la legge (tutta) con attenzione e senza preconcetti. Poi semmai ne critica delle parti, certamente, ma non ne parla senza conoscerla.

Il terzo punto, infine, e in sintesi radicale, chiama all’attenzione a che posizioni estreme di adesione piena e acritica ai diritti individuali concepiti solo come totem e avulsi dall’asperità del reale, possano colludere con le difficoltà degli operatori ad affrontare le contraddizioni del lavoro quotidiano e portare a un paradossale disimpegno rispetto alle persone che sosteniamo di tutelare con zelo evangelico.

Ecco, maggiore conoscenza delle problematiche cliniche come di quelle giuridiche, una posizione mai aprioristica o ideologica, e una sana fobia per le semplificazioni eccessive, sono gli elementi ora quanto mai necessari perché il nostro sapere di disciplina (epistemologicamente per altro portatore di un certo grado di debolezza) possa confrontarsi adeguatamente con le necessità di rigore e chiarezza, e univocità, del diritto, e di conseguenza, degli apparati rivestiti della funzione della sua applicazione.

E, infine, è forse utile che le giovani generazioni di operatori della salute mentale (che tra l’altro con frequenza si definiscono in parte abbandonati dai loro Direttori, che sia vero o no) respirino da subito la necessità di conoscere bene, prima, le complessità sottese alla psichiatria forense e al diritto in relazione alla salute mentale, e al bilanciamento tra i diritti individuali, la autodeterminazione e le necessità di cura, per potere esprimere opinioni che, per citare ancora una volta una nota trasmissione radiofonica, abbiamo l’obbligo di avere informate.

Dott. Antonio Amatulli
Direttore Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze ASST della Brianza

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