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Martedì 02 LUGLIO 2024
Ma veramente la sanità è al collasso?
Gentile direttore,
da settimane leggo sulla Vs prestigiosa testata molti interventi di Personalità che definiscono il nostro SSN al collasso. Trovo esagerati questi allarmi e propongo di riportare il fenomeno denunciato entro i suoi reali limiti. Da 20 anni docente Universitario di Ingegneria clinica e ingegneria per la sanità ed autore del Libro dal titolo omonimo (a fine luglio esce la terza edizione), ho speso gran parte della mia vita professionale ad occuparmi di sanità a livello industriale e non solo accademico. Certamente non penso che il SSN funzioni perfettamente: ma mi permetto sostenere che nel lanciare allarmi bisogna essere più obiettivi e soprattutto informati.
Specie in un ambito così delicato che muove, tra pubblico e privato, quasi 180 miliardi di Euro l’anno: ma è troppo banale dire che i soldi sono pochi e che la Sanità per questo è malata. Se al posto dei circa 140 miliardi del budget pubblico ce ne fossero 160, pensare che le cose potrebbero andare meglio è utopico. Gli allarmisti non potevano ovviamene perdere l’occasione della Legge la 86/24 sulla autonomia differenziata per dire che sicuramente nel Meridione la sanità peggiorerà sempre più. Il recente XII Rapporto 2024 CREA Sanità (Centro per la ricerca economica applicata in sanità) “Opportunità di tutela della salute: le performance regionali”, segnala un elemento essenziale che non si può trascurare: negli ultimi 5 anni a livello nazionale “si è registrato un miglioramento del 46% della performance, che ha interessato tutte le ripartizioni geografiche e, in maggior misura le Regioni del Mezzogiorno (+75,9% in media) “.
Negli ultimi anni quindi, secondo il Centro si è realizzata una riduzione delle distanze in termini di opportunità di tutela della salute tra Meridione e Settentrione e non si vede perché la Legge dovrebbe invertire questo percorso virtuoso: pur in uno scenario ove “non sembra che le regioni con performance migliori riescano a registrare significativi passi avanti", probabilmente – denuncia CREA-per l'esistenza di limiti strutturali nell'attuale assetto del Servizio sanitario. Il SSN ed i SSR soffrono indubbiamente di problematiche strutturali: il problema non sono i soldi, ma soprattutto la managerialità, l’organizzazione ed il controllo di gestione tematiche tutte nelle quali il nostro Paese è molto debole. Non voglio confondere la spesa corrente (cui torneremo) con gli investimenti: ma è opportuno ricordare che l’art. 20 della Legg 67/88 stanziava 36 anni fa ben 30.000 miliardi di vecchie lire per l’ammodernamento della rete ospedaliera italiana; la maggior parte delle Regioni non fu in generale neanche capace di presentare tempestivamente a Roma nemmeno i progetti delle opere desiderate.
Quindi in assenza di progetti gran parte di quei fondi non poterono essere impegnati né utilizzati: nonostante il bisogno, visto che ancora oggi la stragrande maggioranza dei circa 1.300 ospedali italiani può essere definita obsoleta per vetustà e non rispetto delle attuali norme antisismiche. Nel marzo 2023 la Commissione X del Senato ha emesso il documento Indagine conoscitiva sulla ristrutturazione edilizia e l’ammodernamento tecnologico del patrimonio sanitario pubblico, dando luogo ad una audizione di rappresentanti della Ragioneria generale dello Stato e dell’Ispettorato generale per la spesa sociale. Il documento testimonia quanto accaduto: nel 1996 (circa 10 anni dopo l’avvenuto stanziamento delle Legge 67/88) è stata certificata una spesa di solo il 31% dei fondi disponibili: difficile sostenere che siano mancati i soldi. Ed il documento della stessa fonte nel maggio 23 cita uno dei nodi strutturali del sistema, gravissimo, e cioè che, a fronte di fabbisogni per investimenti e attrezzatura in crescita, le aziende sanitarie hanno fatto negli ultimi anni un crescente ricorso all’autofinanziamento. Ciò si è tradotto nell’utilizzo di risorse di parte corrente stornate per essere destinate ad investimenti.
Una soluzione che, considerando il crescere delle esigenze per la copertura dei bisogni di salute a fronte di risorse che tendono a ritornare su profili più contenuti, quali quelli precedenti la pandemia, rischia di incidere sulla qualità dei servizi. Molto facilmente ( qui sono io a fare fosche previsioni) questa incapacità gestionale affliggerà il corretto utilizzo dei fondi del PNRR, da spendere - come noto - entro il 2026. Questi fondi, circa 16 miliardi per la sanità, non sono soldi trovati ma purtroppo per circa il 65% sono un debito perché l’Italia, a differenza della quasi totalità dei Paesi Europei che ha “preso” dall’Europa solo la parte a dono dei fondi del PNRR, ha ritenuto di prendere anche una enorme quantità di fondi a debito, mentre non utilizzava 11 miliardi di fondi strutturali europei a fondo perduto.
Certo l’Italia è sempre alla ricerca di fonti di finanziamento: ma qui qualcuno si è dimenticato del fatto che bisognava spendere questi soldi in 4 anni: e a metà 2024 i pochi dati ufficiali disponibili denunciano un “avanzamento lavori” di pochi percento. Giusto ricordare gli sprechi quali recentemente – per fare un solo esempio - gli acquisti di DPI irregolari e pericolosi per 1,25 miliardi acquistati dalla Struttura del Commissario straordinario per l’emergenza, come verificato nell’aprile 2024 dalla Procura di Roma: per non parlare anche delle centinaia di milioni di € spesi solo in sanità per le opere incompiute ed abbandonate (mediamente una per Regione come riportato da QS del 18 settembre 2015, situazione che certamente è come minimo la stessa ad oggi). Ricordiamo il fenomeno della medicina difensiva che vale circa 11 miliardi l’anno sui 140 su citati, fenomeno generato in gran parte dalle Leggi attuali e dalla evidente necessità di depenalizzare l’atto medico, visto che il 95% delle circa 35mila denunce ricevute ogni anno dai medici si conclude con l’assoluzione del medico o con l’archiviazione. La auspicabile riduzione di questo fenomeno genererà cassa.
E ricordiamo ancora il fenomeno degli accessi impropri ai DEA: le statistiche rilevano che circa l’85/90% degli accessi sono codici 4 e 5 (bassa e bassissima gravità) che intasano inutilmente una struttura che si deve occupare di patologie e codici più gravi. Stiamo parlando dell’85/90% di un totale di 25 milioni di accesso l’anno: non è azzardato considerare che circa 20 milioni di persone, se si escludono gli accessi plurimi, si recano inutilmente ogni anno ai DEA: diciamo che ogni accesso costa al sistema regionale almeno 500 €? Parliamo di dieci miliardi di €. Dietro a questo fenomeno il difetto principale è l’incapacità di gestione, non certo la mancanza di fondi. Ma per onestà bisogna puntare un faro sulla inefficienza della medicina del territorio cui il DM 77/22 cerca di mettere rimedio.
Una statistica OECD ci ricorda che la sanità pubblica nei vari Paesi copre in media il 74% dei bisogni, valore simile a quello del nostro Paese: certo bisogna migliorare. Ma emergono anche aspetti positivi, in genere dimenticati dagli addetti ai lavori ; e cioè che in Italia la copertura pubblica per le cure ospedaliere è del 96% contro una media OCSE dell’87%, quella della spesa farmaceutica 62% contro una media del 58%. Per contro è innegabile verificare che la copertura pubblica delle cure non ospedaliere nel nostro Paese risulta molto inferiore alla media internazionale (60% contro il 77%) e qui bisogna lavorare. Dovremmo parlare ora di numero posti letto, di posti di TI, di mancanza di medici ed infermieri: ma sarà possibile farlo successivamente. Il testo è già troppo lungo. In conclusione: necessitano più soldi? Forse… cominciamo però a dedicarci all’efficienza
Stefano Scillieri
Docente di Clinical and health care engineering – Scuola Politecnica UNIGE-DIBRIS
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