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Martedì 02 LUGLIO 2024
Definiamo “scientificamente” l’appropriatezza dell’appropriatezza 



Gentile Direttore,
il dibattito pubblico sul Decreto Legge liste d’attesa ha riproposto l’orma trentennale questione dell’appropriatezza prescrittiva, nel caso specifico della specialistica ambulatoriale.

Il riferimento istituzionale in questo campo è il Manuale ministeriale del 2012 per la formazione del Governo Clinico, che illustra le definizioni e modelli concettuali. Il documento esordisce con questa prudente affermazione: “poiché l’appropriatezza è un concetto complesso e multidimensionale, è possibile individuare alcune prospettive di lettura che ne identificano altrettante componenti e dimensioni, come il livello di evidenza scientifica, il punto di vista del paziente, i valori della società”.

Il passaggio dalla dimensione teorica a quella pratica sconta l'incertezza dell’operazionalizzazione di un concetto così multiforme, niente affatto scontato e condiviso tra stakeholder professionali, pazienti, attori istituzionali ed organizzativi della scena sanitaria. Fatte queste premesse ci si può avventurare nella galassia definitoria del termine, illustrata nel documento ministeriale da una dozzina di proposizioni dai tratti comuni ma anche con caratteristiche divergenti, che non ne facilitano comprensione e traduzione pratica.

L'indeterminatezza semantica è connaturata a tutti concetti teorici, come le idee di giustizia, verità, libertà, equità, salute etc.., oggetto di interpretazioni ed infinite diatribe filosofiche; vale anche nel caso dell’appropriatezza nella quale la matrice socio-culturale è preminente rispetto alla componente “naturale” dei fatti biologici. Si deve al filosofo della scienza Karl Popper la critica alle disquisizioni etimologiche sull’autentico significato dei termini, nel tentativo di coglierne l’“essenza” ontologica. Le sue considerazioni valgono a maggior ragione per il gergo medico, che dovrebbe essere rigoroso e oggettivo e non approssimativo e fuzzy

“La filosofia, che per venti secoli si è preoccupata del significato dei suoi termini è, non soltanto piena di verbalismo, ma anche terribilmente vaga e ambigua, mentre una scienza come la fisica, che non si preoccupa tanto dei termini, quanto piuttosto dei fatti, ha conseguito una grande precisione”.

Gli intenti definitori si complicano ulteriormente quando un termine si articola in sotto concetti che lo specificano: complessità e indeterminatezza aumentano come accade con l’appropriatezza, che incorpora le idee di efficacia, efficienza, adeguatezza, economicità, sicurezza etc. Ognuno di questi termini sconta una certa vaghezza, nel senso che le regole d'uso che governano i nostri concetti non specificano come applicarli in tutti i casi possibili. Vi sono lacune nei criteri di utilizzo pratico, per cui certi giudizi finiscono per essere o né veri né falsi, o fortemente dipendenti dal contesto. I cosiddetti casi borderline riguardano la zona grigia in cui la competenza concettuale non è in grado di affermare con certezza che "X è appropriato" o "Y è efficace".

Per uscire da questo ginepraio semantico conviene seguire il consiglio di sir Karl e risalire agli eventi che hanno originato l'idea di appropriatezza, nata da una sorprendente constatazione in contrasto con l’ideale positivistico di oggettività scientifica. Il tema del disaccordo tra medici è stato proposto in uno storico articolo del 1994, a firma del direttore della RAND Corporation californiana, che partiva dalla descrizione della “patologica” variabilità geografica nei tassi di specifici interventi clinici, soprattutto chirurgici, dalle colecistectomie alle protesi ortopediche. Il metodo RAND, messo a punto in quegli anni, si proponeva di contenere tale variabilità indesiderata introducendo come correttivi “scenari” e “indicazioni” di riferimento definiti da esperti per selezionare, in modo appropriato sulla base di sintomi, storia clinica e risultati dei test diagnostici, i pazienti candidati all’intervento, “mentre gli aspetti di carattere economico e/o di organizzazione sanitaria vanno esclusi”.

Nei trent’anni trascorsi da allora il significato del termine è slittato da questa importazione empirica, basata sulla rilevazione delle differenze geografiche nelle prestazioni ospedaliere, fino a diventare un concetto ombrello sotto il quale trovano riparo una varietà di pratiche, obiettivi e strumenti di valutazione. In nome dell’appropriatezza sono state introdotte via via norme regolatorie nel contesto della “medicina amministrata” dal SSN, che hanno riguardato dal 1994 i farmaci del Prontuario Terapeutico Nazionale e solo dopo una ventina d’anni le indagini diagnostiche inserite nei Livelli Essenziali di Assistenza del 2017. Tali vincoli hanno avuto vari effetti collaterali a livello del sistema prescrittivo che connette attori di I e II livello, per gli impliciti intenti economici delle limitazioni prescrittive e dei controlli amministrativi. Il trasferimento dei criteri generali alle scelte concrete non è sempre lineare e condiviso, come vorrebbe la razionalità tecnica decontestualizzata, ma può far emergere problemi interpretativi e valutativi con un impatto indesiderato sulle relazioni tra medici di MG, specialisti e pazienti.

Per giunta la proliferazione dei modelli di appropriatezza professionale (prescrittiva diagnostica e terapeutica, clinica, organizzativa, temporale etc.) ha generato una paradossale variabilità di strumenti e metodi per contenere la variabilità patologica delle prestazioni. A questo punto per rimettere un po’ di ordine in questa ulteriore variabilità indesiderata servirebbe una meta appropriatezza, un confronto pubblico di alto profilo per definire “scientificamente” l’appropriatezza dell’appropriatezza.
A questi temi ho dedicato un saggio, con la prefazione di Claudio Maria Maffei, dal titolo Appropriatezza e variabilità nel sistema prescrittivo: inappropriatezza professionale tra rumore organizzativo e prescrizioni indotte in medicina generale.

Dott. Giuseppe Belleri
Ex MMG - Brescia

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