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Giovedì 11 GENNAIO 2024
“Manovra a saldo zero. Serve un secondo stanziamento per il Fondo sanitario nazionale”. Intervista a Raffaele Donini (Regioni)
La sua Regione, l’Emilia-Romagna, ha chiuso per il quarto anno consecutivo il bilancio ricorrendo a risorse straordinarie. In altre Regioni è andata anche peggio; in Toscana, per esempio, per far quadrare i conti sono arrivate nuove tasse. “Ci sono costi – come quelli energetici, dei farmaci innovativi o dell’inflazione - che non dipendono dalle Regioni e che neanche una Regione con un sistema sanitario pubblico virtuoso può riuscire a coprire. Servono più risorse sul Fsn”. Tra gli obiettivi di Donini per il 2024, anche la riduzione delle diseguaglianze di salute tra le aree del Paese.
La manovra approvata il 29 dicembre scorso, che per la sanità prevede un incremento del Fondo sanitario nazionale di 3 miliardi per l’anno 2024, non rassicura l’assessore alla Salute dell’Emilia-Romagna, nonché coordinatore della Commissione Salute della Conferenza delle Regioni, Raffaele Donini. “Sono per la quasi totalità vincolati al rinnovo del contratto del personale dipendente”, spiega in questa intervista. Per questo Donini auspica e si aspetta un segnale dal Governo, un secondo stanziamento per il Fondo sanitario nazionale nel corso del 2024. “Sappiamo bene che lo Stato non è un bancomat, ma di questo passo le Regioni riusciranno più a trovare risorse per chiudere in pareggio i bilanci. E se il sistema inizia a franare da qualche parte, si porterà in poco tempo dietro tutto il Paese”.
Assessore Donini, siamo all’inizio di un nuovo anno ma anche alla fine del primo anno di Governo Meloni. Qual è il suo giudizio, anche alla luce della recente manovra?
Restano forti preoccupazioni per la sanità. Le Regioni sono ancora oggi nelle condizioni di chiudere i bilanci della sanità facendo ricorso a risorse straordinarie e irripetibili. Dove questo non è stato possibile, sono aumentate le tasse per non tagliare i servizi. Questo dimostra ancora una volta che il Fondo sanitario nazionale è inadeguato rispetto ai costi di un servizio sanitario pubblico e universalistico, e la nuova manovra non cambia questa realtà, perché i 3 miliardi in più destinati alla sanità sono per la quasi totalità vincolati al rinnovo del contratto del personale dipendente. La nuova manovra c’è, inoltre, una rideterminazione del tetto di spesa sui farmaci e quindi del payback che, secondo le prime proiezioni, dovrebbe comportare una diminuzione di risorse a disposizione delle Regioni pari a circa mezzo miliardo di euro.
In poche parole, questa è una manovra a saldo zero, che si inserisce in una crisi epocale della sanità pubblica italiana sul piano della sostenibilità, perché se è vero che dal 2020 ad oggi sono stati immessi nel Fondo risorse per oltre 15 mld di euro, è altrettanto vero che nei 10 anni precedenti se ne erano tagliati almeno 30 mld.
Il tema della sostenibilità è una battaglia che nel 2024 poteremo avanti senza sosta, in modo democratico e anche collaborativo, ma deciso, per ribadire ancora una volta che la sanità non può essere marginale nell’azione di governo. Sappiamo bene che lo Stato non è un bancomat, ma mancano 4 miliardi di euro aggiuntivi al Fondo per almeno 5 anni, per raggiungere l’obiettivo del 7,5% del Pil, con la manovra restiamo ancora sotto il 7%. Di questo passo le Regioni riusciranno più a trovare risorse proprie straordinarie e ripetitive per chiudere in pareggio i bilanci. E se il sistema inizia a franare da qualche parte, si porterà in poco tempo dietro tutto il Paese.
Resta in sospeso anche la questione del payback sui dispostivi medici…
È evidente che si tratta di una normativa che va rivista, perché da una parte bisogna garantire alle Regioni la copertura di quella voce di spesa, che non è riducibile attraverso tagli, dall’altra va garantita la sostenibilità delle aziende, in particolare delle piccole e medie imprese.
Il paradosso è che il tema è già stato sollevato da due anni ma ancora oggi il payback sui dispositivi medici continua a maturare. Il Governo è intervenuto con 1 mld di euro per tamponare le conseguenze derivanti dal payback passato, ma allo stato attuale la normativa non è cambiata. Sicuramente si tratta di una voce di spesa che deve essere coperta alle Regioni in attesa del pronunciamento della Corte Costituzionale.
L’Emilia-Romagna è tra le Regione che hanno chiuso il bilancio senza bisogno di introdurre tasse o tagliare i servizi. La preoccupa il prossimo bilancio?
Certamente. Per il quarto anno consecutivo abbiamo chiuso il bilancio con risorse straordinarie. Chiunque faccia l’amministratore in modo non incauto sa che un bilancio che, di anno in anno, riesce a chiudersi in pareggio in modo rocambolesco, non è sostenibile. La nostra, peraltro, è una Regione virtuosa, se si considera abbiamo un saldo di mobilità attiva molto alto, una quota premiale molto alta perché eroghiamo i Lea ai massimi livelli e riusciamo a risparmiare circa 150-200 milioni ogni anno grazie alla gestione degli appalti dei beni e dei servizi tramite Intercent-ER.
Dunque non è questione di modello e risparmi. Servono risorse, non c’è altra soluzione …
Indubbiamente ci sono costi che le Regioni devono essere brave a gestire, ma ce ne sono altri che non è possibile dominare. Penso all’impennata dei costi per i farmaci innovativi o che passano a carico del sistema sanitario; penso ai costi energetici o all’inflazione, che erode una parte significativa del fondo. Sono costi che non dipendono dalle Regioni ma che continuano a salire. Costi che neanche una Regione con un sistema sanitario pubblico virtuoso può riuscire a coprire.
I professionisti sanitari sono vostri alleati rispetto a questa istanza al Governo, ma anche tra i professionisti e le Regioni non mancano le tensioni. In Emilia-Romagna c’è stato il recente caso dei Cau, i nuovi Centri di Assistenza e Urgenza, contro i quali si sono schierati alcuni sindacati medici. Che riscontri avete oggi sui Cau?
Già dalla loro istituzione, i Cau hanno sollevato in realtà molto più entusiasmo che polemiche, soprattutto da parte dei professionisti che vi lavorano, medici e infermieri, che hanno trovato una gratificazione sul piano professionale e anche economico. Abbiamo valorizzato come non era mai stato fatto la Continuità Assistenziale e i medici in formazione specialistica. Le polemiche fanno parte del cambiamento, si accettano e possono anche servire a fare meglio, ma credo che a dimostrare il buon funzionamento di questa riforma siano i numeri stessi: i 19 Cau aperti ad oggi hanno ormai gestito oltre 20mila accessi in poche settimane di attività. Tra i principali motivi di accesso ci problemi di tipo ortopedico e gastrointestinale e disturbi minori, proprio quelle urgenze a bassa complessità per cui la Regione ha istituito i CAU.
Avete già un riscontro sull’impatto dei Cau nella riduzione degli accessi in Pronto Soccorso?
I Cau sono attivi da poco più di un mese, una valutazione dell’impatto sui PS richiederà più tempo. Nei primi mesi del 2024 i Cau diventeranno 30-40 e saranno operativi anche nelle adiacenze dei grandi PS. A quel punto sarà possibile fare una valutazione più attenta.
Allo stato attuale siamo comunque molto soddisfatti dei risultati ottenuti finora, riteniamo sia il modo più appropriato di riorganizzare la continuità assistenziale.
Ospedali, Cau, case di comunità, ospedali di comunità… non si rischia di avere troppi presidi e una dispersione eccessiva di risorse (umane, tecnologiche ed economiche, che sappiamo essere molto limitate) con una sovrapposizione di funzioni?
Le Regioni hanno salutato positivamente il DM 77, che deve definire in modo appropriato il setting – soprattutto territoriale – di presa in carico del cittadino. Deve essere assolutamente chiaro chi fa cosa: da una parte le case di comunità come luogo di cura e assistenza della cronicità, il luogo in cui la medicina generale e della continuità assistenziale, gli specialisti ambulatoriali, gli assistenti sociali e gli psicologi possano cooperare tra loro; dall’altra gli ospedali di comunità come luogo di cure intermedie per quella infinità di casi, che riguardano soprattutto le persone molto anziane, che non richiedono più un’assistenza ospedaliera ma che non sono ancora nelle condizioni di poter essere trattare a domicilio, oppure che non hanno le condizioni per restare a casa ma che non sono ancora da ospedalizzare; infine l’assistenza domiciliare, che identifica la casa come primo luogo di cura. In Emilia-Romagna ci sono poi i Cau, una struttura del territorio alla quale le persone possono rivolgersi per problemi di salute urgenti, ma non gravi, per prescrizioni urgenti, medicazioni e terapie non differibili.
La rete territoriale va utilizzata per le potenzialità che ha. Ovviamente deve essere chiaro chi fa cosa per non disperdere le risorse, ma è altrettanto vero che il DM 77 senza adeguati finanziamenti è una mera dichiarazione di principio.
L’Italia, ed anche l’Emilia-Romagna, è fatta di tanti, piccoli borghi, spesso lontani dai centri più grandi e abitati da poche persone, soprattutto da anziani. Cau, case di comunità… non potranno essere istituite in ciascuno di questi paesi. Quali presidi di riferimento rimarranno per questa popolazione?
Le farmacie e il medico di famiglia. Non c’è nessun disegno che possa prescindere dalla centralità del medico di medicina generale nei confronti del paziente, in particolare del paziente cronico.
L’Emilia-Romagna ha chiesto la deroga per alcuni punti nascita. Secondo lei quello dei punti nascita o degli standard ospedalieri è un tema ancora aperto?
È un punto aperto, ma che non si risolve con una deroga. Se da una parte, infatti, abbiamo chiesto alcune deroghe per i punti nascita di alcuni comuni, soprattutto montani e delle aree interne, dall’altra i piccoli punti nascita sono in sofferenza o devono essere sospesi per mancanza di ginecologi.
A proposito di carenza di personale, è a favore dell’abolizione del numero chiuso a medicina?
Sono anzitutto convinto che i test siano assolutamente inadeguati a selezionare futuri medici, così come ritengo che il numero chiuso a Medicina abbia registrato un clamoroso fallimento anche perché non in linea con il fabbisogno.
Se non si vuole parlare di abolizione del numero chiuso a Medicina, bisogna comunque parlare da un lato di un numero giusto incrementale per gli iscritti in medicina e dall’altro delle modalità di selezione che, a mio parere, sarebbero molto più utili se avvenissero alla fine del primo anno di corso attraverso una valutazione di merito.
Quali auspici per il 2024? Quali richieste al Governo?
Un secondo stanziamento per il Fondo sanitario nazionale, dopo una approfondita discussione a livello istituzionale; un investimento importante per la valorizzazione del personale, dipendente in particolare (su questo tema mi sembra che anche il ministro sia impegnato); la possibilità per le regioni di continuare a cooperare in maniera solidale, anche ponendosi congiuntamente l’obiettivo di una maggiore omogeneità di risposta sanitaria ai cittadini, unendo di più il Paese, diminuendo le diseguaglianze.
Lucia Conti
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