quotidianosanità.it
Ciò che ha scritto il prof. Sabino Cassese sul Corriere della sera è quanto vado dicendo da quasi nove anni: occorre una riforma quater per la sanità, pena la sua progressiva morienza. È già tanto che sia sopravvissuta, aggredita così com’è stata da un privato che non ha lasciato nulla attaccato all’osso, basti pensare ai marchingegni scoperti dalla Corte dei conti del Lazio a sostegno di un extrabudget miliardario indebitamente corrisposto dalle aziende sanitarie laziali e altrettanto indebitamente neutralizzato nel fondo di (prima) dotazione piuttosto che essere preteso in restituzione. È già tanto che abbia ancora aperte le porte di accesso e le corsie a seguito dei maltrattamenti perpetrati nei confronti del personale sanitario, in favore dei quali nessuno (proprio nessuno) ha preteso, per tempo, lo sblocco del numero chiuso per le rispettive lauree. Una sanità così fondata da decenni è una sanità che vive su piedi di argilla. È diventata peggio di una slavina, pronta a scivolare nei gironi dell’inferno con tanta povera gente dietro. Coordinata da organismi messi su non perché utili bensì per super retribuire i reggenti alla faccia chi non ha il coraggio di cancellarli dalle mappe dello spreco e della compiacenza distribuita all’ingrosso. Recitata con incarichi di advisoring spesi per ammirare i paesaggi e con revisori degni del più tradizionale dei piedistalli sta consumando ciò che resta. Un residuo malconcio reso un raro esempio di servizio pubblico morente perché lasciato in mano a manager, per il vero alcuni molto bravi, per la maggior parte con possesso di esperienze e titoli che altrove varrebbero zero e che solo in Italia si ritendono valevoli per dichiarare quelle idoneità attraverso le quali la politica dirige la baracca attraverso i “bendisposti” di turno. Per non palare dello stato di manutenzione di strutture pubbliche che neppure a stento meriterebbero l’accreditamento e con il personale che si preferisce da decenni mantenere così com’è, in bilico e quasi alla fame, rispetto a quelli che invece campano, aumm aumm, a mezzo servizio. Per non parlare di quelle logiche cha alimentano oggi i medici a gettone, i medici extraeuropei non iscritti all’albo e quelli “considerati dipendenti senza esserlo”. Si sta insomma dando per scontata la persistenza di quelle brutte abitudini consolidate, che sconfinano in reati, che mettono l’utente bisognoso in mani adeguate (forse) di fatto ma non di diritto. Non si può sopportare una sanità equilibrista, che tenta di mettere la matrioska più grande in quella più piccina. La regola non è quella di distribuire l’accreditamento così come oramai si fa da tempo con la maturità, nel senso di concederla a tutti. Occorre ripristinare rigorosamente ciò che c’è dietro l’accreditamento e tenere in alta considerazione cosa ci sia davanti: il bisogno epidemiologico da soddisfare, quindi la gente, prioritariamente quella più povera praticamente uccisa dalle liste di attesa. Dunque, rilevazione del fabbisogno, programmazione per soddisfarlo, ripartizione prioritaria nell’offerta pubblica accreditata, definizione dell’accreditamento da destinare a privati erogatori secondo le nuove regole (legge 118/2022), stipulazione dei contratti con gli erogatori scelti mediante proceduta agonistiche. Non viceversa. A parte, necessita pensare alla messa a terra delle case e gli ospedali di comunità, modificando le previsioni, nazionali e regionali, sul distretto. L’impressione che se ne ha, dalla mancata previsione economica del personale necessario nel triennale nella legge di bilancio 2024-2026, che il tutto vada a finire nella gestione privata. Ettore Jorio
stampa | chiudi
Martedì 09 GENNAIO 2024
Una sanità che vive su piedi di argilla
È diventata peggio di una slavina, pronta a scivolare nei gironi dell’inferno con tanta povera gente dietro. Coordinata da organismi messi su non perché utili bensì per super retribuire i reggenti alla faccia chi non ha il coraggio di cancellarli dalle mappe dello spreco e della compiacenza distribuita all’ingrosso.
È già troppo che la periferia, negata dell’assistenza primaria territoriale, abbia ancora abitanti, con una medicina di famiglia che presenta il conto a fine anno dei suoi limiti di assistenza reale e non dei servizi/prestazioni resi. Insomma, è già una esagerazione vantare la perdurante esistenza di un Servizio sanitario nazionale, senza accorgersi che è pieno zeppo di personale amministrativo, in favore del quale abbondano i concorsi perché è strumentale a fare clientele, e povero di operatori sanitari, dei quali in tanti non riconoscibili come giuridicamente tali.
© RIPRODUZIONE RISERVATA