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Ho letto con interesse l’articolo di Roberto Polillo e Mara Tognetti uscito su “Quotidiano sanità” del 13 novembre scorso in cui gli autori affermavano che “Un Sistema Sanitario che, come più volte richiamato, per sopravvivere ha bisogno di interventi organici urgenti, come già evidenziato in precedenti contributi, e di essere ripensato allineandolo alle trasformazioni sociali e di salute che caratterizzano e caratterizzeranno sempre di più la nostra società. Del tutto evidente è infatti la necessità di mettere al centro la lotta alle diseguaglianze di salute, cresciute ulteriormente con la pandemia e ai fattori di nocività, i cui effetti si manifestano in modo più vistoso sulle fasce più svantaggiate a partire dai primi mesi del concepimento, come ampiamente confermato dagli studi sulla epigenetica”. Questo non sempre ha garantito un’adeguata qualità dei servizi per due motivi: I contenuti assistenziali erogati si limitano a quelli di bassa e media complessità assistenziale e spesso sono anche inappropriati. In più occasioni non si trova l’aderenza ai criteri di accreditamento delle varie Leggi Regionali, che ancora troppo spesso permangono in uno stato, che possiamo definire “cronico”, di recepimento imperfetto del “Disciplinare per l’accreditamento delle strutture sanitarie”, emanato dal Ministero dopo un lungo lavoro coordinato da AGENAS e Regioni. Se la sanità pubblica non recupera, non tanto una gestione diretta - non è questo il punto -, ma una buona capacità di governance, che significa anche efficacia delle azioni di monitoraggio e verifica dei servizi erogati da “terzi fornitori” una dinamica pubblico privato moderna, efficiente e trasparente non sarà mai raggiunta. Circa le criticità del SSN e la competizione con la sanità privata Il rapporto pubblico e privato dopo la pandemia Covid 19, Le proposte WHO Europe Tagli e Piani di Rientro e impatto sulla sanità pubblica Il processo è continuato fino ai giorni nostri. Siamo passati da 922 Posti Letto “pubblici” per 100.000 abitanti nel 1980 a 272 Posti Letto nel 2013 (Fonte WHO/OMS) … e poi si è continuato a tagliare … inoltre ai PL sono agganciati tutti i parametri relativi al personale necessario …. Si ascolta il CENSIS che presenta, anno dopo anno, delle relazioni molto documentate sullo stato del SSN, le sue criticità e i suoi ritardi, il suo “ritirarsi”, e, quindi, l’indicazione degli spazi di sviluppo possibili per una “sanità integrativa” che è di fatto anche “sostitutiva” di quella “pubblica”. Quindi lo spazio che viene lasciato a Assicurazioni e Mutue non ha l’obiettivo “in primis” di tutelare la salute dei lavoratori, ma quello di ridurre il costo del lavoro e liberare il reddito di impresa dalle tasse nella speranza di accrescere gli investimenti per incrementare la ricchezza economica del nostro Paese. Alcune osservazioni di merito Quindi lo spazio che viene lasciato a Assicurazioni e Mutue non ha l’obiettivo “in primis” di tutelare la salute dei lavoratori, ma quello di ridurre il costo del lavoro e liberare il reddito di impresa dalle tasse nella speranza di accrescere gli investimenti per incrementare la ricchezza economica del nostro Paese. Deducibilità fiscale, out of pocket e quote capitarie Lo scenario è ancora parzialmente “aperto” …… La sanità “accreditata” primo cliente dei SSR … Spesa sanitaria e sostenibilità del SSN … Il nostro modello di sanità era basato sul modello così detto “Beveridge”, come lo era in origine il NHS inglese, evoluto nel tempo verso un “sistema misto”, tipo quello francese. Si vuole adesso andare verso un modello “Bismark”, tipo quello della Germania Federale, basato su assicurazioni e mutue obbligatorie e con governance e monitoraggio pubblico? Attenzione parliamo della Germania, Paese ove il monitoraggio e le sanzioni relative sono cose serie … Non vediamo le precondizioni per un trasferimento del modello in Italia. La realtà oggi del SSN e dei SSR … Conclusioni Nutriamo seri dubbi che questa sia la strada che garantirà i migliori risultati sia in termini di salute che di sostenibilità e pensiamo altrimenti che i nodi che possono essere affrontati con ragionevole possibilità di successo e di beneficio per i cittadini sono: Abbiamo già tutti gli strumenti necessari per gestioni efficaci, efficienti e appropriate delle aziende sanitarie e dei servizi dati in outsourcing. Il nodo è tutto politico e consiste nella volontà o meno di ridare centralità al SSN e garantirne rinascita e resilienza. Il SSN e i SSR hanno bisogno di finanziamenti adeguati, ma soprattutto di nuovi modelli gestionali e organizzativi e di una diversa cultura dell’assistenza e della cura. Giorgio Banchieri
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Mercoledì 22 NOVEMBRE 2023
Sempre sul rapporto sanità pubblica e sanità privata: collaborazione o competizione?
Abbiamo già tutti gli strumenti necessari per gestioni efficaci, efficienti e appropriate delle aziende sanitarie e dei servizi dati in outsourcing. Il nodo è tutto politico e consiste nella volontà o meno di ridare centralità al Ssn e garantirne rinascita e resilienza. Il Ssn e i Ssr hanno bisogno di finanziamenti adeguati, ma soprattutto di nuovi modelli gestionali e organizzativi e di una diversa cultura dell’assistenza e della cura. l Governo è sintonizzato su questa prospettiva?
La risposta di Barbara Cittadini, Presidente Nazionale AIOP, sempre su “Quotidiano sanità” dal titolo “Ancora fake news sul privato accreditato”, ci sembra molto di” bandiera” e la contro risposta di Polillo e Tognetti assolutamente condivisibile.
Intervengo nel dibattito ripartendo da considerazioni già proposte sempre su questa testata sul tema da aprte mie di altri colleghi.
La sanità privata ha molte facce
Come scritto il 29 luglio c.a. “la sanità privata ha molte facce”. È “accreditata” con il SSN, è “classificata” (ospedali religiosi) in accreditamento in base ai “Patti Lateranensi” tra Stato della Chiesa e Stato Italiano, è in “outsourcing” nella gestione di servizi e strutture ed è “integrativa” in base al “Jobs Act”. Poi abbiamo la sanità privata “privata”. La sommatoria di queste diverse presenze fa già sì che in diverse Regioni importanti sia costituisca la maggior parte dell’offerta di servizi sanitari ai cittadini residenti.
Ad esempio nel Lazio abbiamo una forte presenza di Ospedali “Classificati” (”Gemelli”, Fatebenefratelli”, “Campus Biomedico”, “Israelitico”, etc.), diversi ospedali e Case di Cura “accreditate”, come molte RSA, Residenze di vario tipo e genere, Ambulatori e Centri diagnostici, per non parlare di tutte le attività in “outsourcing” delle ASL e in più tutte le reti “convenzionate” con Assicurazioni e Mutue nell’ambito dei contratti di “sanità integrativa” rinvenienti nel tempo dall’applicazione del “Jobs Act”.
I dati sulla presenza del “privato” in sanità, citati nell’articolo di Polillo e Tognetti, sono corretti …
Gli scenari della evoluzione di bisogni di una popolazione prevalentemente sempre più anziana
Parto prendendo atto di quanto affermato nel “Libro Verde” del Ministero della Sanità, luglio 2013 in cui si diceva che: “Il consumo di risorse socio-sanitarie per le persone di oltre i 75 anni è 11 volte superiore alla classe di età 25-34 anni e i pazienti cronici rappresentano il 25% della popolazione ed assorbono il 70% della spesa”. Constatazione che implicava il tema non trascurabile delle risorse da dedicare ai “Fondi per la non autosufficienza”. Fondi su cui non c’è mai stato un dibattito adeguato e quindi non abbiamo visto scelte conseguenti. Di fatto ci si affida al mercato, ovvero, all’offerta assolutamente “privata” e alle capacità di spesa dei singoli. Quindi selezione per reddito e diseguaglianze di salute conseguenti …
Peraltro questo è un tema con una forte differenziazione di modelli di risposta da Regione a Regione. “… Oggi è sempre più chiaro che intorno alla questione delle malattie croniche si gioca in primo luogo la salute di centinaia di milioni di persone e subito dopo la sostenibilità finanziaria dei sistemi sanitari. Il problema [...] è in primo luogo politico. Pensare di contenere la spesa sanitaria attraverso risparmi/riduzioni degli sprechi (leggi ‘Spending review’), mantenendo lo stesso modello di organizzazione sanitaria (essenzialmente clinico-ospedaliera) è uno sforzo vano. Le soluzioni tecniche non mancano, e tra l’altro sono efficaci e relativamente poco costose, come descritto in numerosi documenti internazionali […] Queste richiedono un netto cambiamento del modello di organizzazione sanitaria, più orientata alla prevenzione, centrata sulla persona, basata sulle Cure primarie e sulla sanità d’iniziativa: un modello molto simile all’Extended Chronic Care Model alla Community-oriented Primary Care”. [Quaderno “Monitor” numero 32, AGENAS 2013]. Eravamo 10 anni fa … ed è cambiato tanto … in peggio …
In merito ai processi di ”accreditamento” valgono altre considerazioni
Già prima della pandemia nelle filiere assistenziali sociosanitarie e sociali la presenza pubblica era minoritaria. Con i tagli finanziari alla sanità nella logica dei pareggi di bilancio la maggioranza dei servizi semiresidenziali e residenziali e di ADI sono in quasi tutte le ASL affidati in “outsourcing” e svolti da organizzazioni (società o cooperative) del privato sociale o da soggetti privati.
- I tagli ai bilanci delle ASL hanno portato ad una riduzione degli organici dei servizi di ispezione, controllo e auditing e pertanto della capacità di monitoraggio della qualità dei requisiti organizzativi, professionali e assistenziali che i “terzi fornitori” s’impegnavano per contratto a garantire nel tempo. È accaduto in più di un’occasione che tali garanzie si siano ridotte perché i fornitori di servizi riducevano progressivamente la qualità delle prestazioni perseguendo logiche di massimizzazione del MOL (Margine Operativo Lordo);
- Le ASL, pur avendo dovuto bandire di nuovo tutte le gare di affidamento di servizi a terzi, come da Circolare ANAC, spesso avevano reiterato vecchi capitolati di gara senza cogliere l’opportunità per adeguarne i criteri tecnici dei Capitolati di Gara, perdendo così l’occasione di aggiornarli sia alla evoluzione delle cure e delle prassi assistenziali che alla evoluzione di bisogni di salute delle popolazioni.
Una idea ricorrente è quella che una “sana competizione” tra sanità pubblica e sanità privata avrebbe fatto crescere il livello di qualità della gestione delle strutture pubbliche.
L’assioma di partenza era che nei fondi a disposizione per il FSN avremmo dovuto recuperare per la “spesa buona” ben circa 25 miliari di euro che venivano sprecati in “inadeguato coordinamento” (mancanza di integrazione dei servizi), circa 2,97 mld, in “sovra utilizzo”, circa 7,42 mld, in “complessità amministrative”, circa 2,72 mld, in “sottoutilizzo”, circa 3, 45 mld, in “acquisti e costi eccessivi”, circa 3,21 md e, infine per “frodi e abusi” circa 4,95 mld [Il Sole 24 Ore-GIMBE]. In realtà non abbiamo visto adeguate politiche virtuose di successo su questi fronti. Peccato che” pubblico” e “privato” non hanno gli stessi vincoli gestionali e i manager pubblici non possono combinare i fattori produttivi in loro disponibilità come dovrebbero per raggiungere gli obiettivi a loro assegnati.
Inoltre secondo l’approccio/vulgata sulle leggi di mercato nel punto in cui la curva di domanda e offerta si incontrano il loro rapporto dovrebbe essere perfettamente bilanciato. Si dovrebbe produrre esattamente la quantità necessaria con il prezzo di mercato e il volume di produzione che rimangono stabili. Quanto sopra dovrebbe regolare le dinamiche anche del settore sanitario.
Invece si scopre che non esiste una concorrenza perfetta, ma anzi il mercato è dominato da concentrazioni finanziarie che inducono la domanda, la modificano e l’orientano.
Infatti in USA, ove la sanità è prevalentemente privata “privata”, in base a studi e ricerche coordinate dal collega Berwick abbiamo uno scenario non proprio di efficienza acclarata:
WHO Europe tramite l’Observatory on health systems and policies, Policy Brief 56, titolato “Coinvolgere il settore privato nella fornitura di beni e assistenza sanitaria - Lezioni di governance dalla pandemia di COVID-19” (https://eurohealthobservatory.who.int/publications/i/engaging-the-private-sector-in-delivering-health-care-and-goods-governance-lessons-from-the-covid-19-pandemic) svolge una riflessione sul rapporto pubblico e privato. Afferma che “l’obiettivo principale dello sfruttamento delle capacità del settore privato è quello di migliorare la fornitura di beni e servizi sanitari, e di farlo in modo da coinvolgere efficacemente il settore privato in linea con gli obiettivi e le priorità del sistema sanitario. Pertanto, dal punto di vista delle politiche pubbliche, l’allineamento degli obiettivi e la compatibilità dovrebbero essere i fattori chiave per stabilire potenziali impegni nel settore privato. Questo è un requisito minimo e può fungere da fondamento per qualsiasi ulteriore sviluppo che possa essere perseguito dai politici e dagli enti attuatori nell’allineare le strutture istituzionali e normative che promuovono o integrano più attivamente gli impegni del settore privato nei sistemi sanitari a fornitura mista. Le prove dei casi di studio sottolineano inoltre che la coerenza e la prevedibilità degli impegni sono elementi chiave per mantenere la fiducia e costruire relazioni pubblico-private di successo”.
Inoltre WHO ritiene che sia necessario affrontare esplicitamente l’equa condivisione del rischio per proteggere i pagatori pubblici e rafforzare la responsabilità dei fornitori del settore privato.
Quindi il piano di relazione dovrebbe spostarsi tutto su sistemi di selezione, valutazione e monitoraggio in un approccio di rendicontazione trasparente e accessibile a tutti gli stakeholders interni ed esterni ai sistemi sanitari pubblici. Nel Nostro Paese molti di questi strumenti sono già previsti, ma quanto sono usati con coerenza e senso di responsabilità?
Poi abbiamo avuto la stagione dei “Piani di Rientro” delle Regioni non “virtuose”, che con oltre 25 miliardi di tagli al FSN ha dato un contributo sostanziale alla riduzione della presenza “pubblica” in sanità.
Registriamo 10.000 posti letto “pubblici” in meno, senza toccare invece quelli “accreditati” e una perdita progressiva di alcune decine di migliaia di operatori sanitari (medici, infermieri, tecnici, amministrativi, etc) ... e poi la pandemia ha fatto venire fuori tutte le criticità esplicite e latenti nei SSR ….
A conferma di quanto detto nel 2020 sono state aperti 12 ospedali (di cui 11 nel “privato”) per un totale di 1.004 ospedali rispetto ai 992 del 2019 [Annuario SSN 2020, del Ministero Salute, 2022].
Per altro Ferruccio Fazio, ai medici ambulatoriali del SUMAI ASSOPROF, riuniti a Lecce per il loro 43° Congresso Nazionale, anno 2012, affermava che “Le Regioni con i piani di rientro non possono chiudere gli ospedali senza creare strutture sul territorio, perché così non si risolve il problema. Il 40% dei ricoveri è a carico degli ultra sessantacinquenni e questo non è più sostenibile, il sistema rischia il collasso nel giro di pochi anni. E proprio la riorganizzazione del territorio rappresenta la risposta, «una scelta obbligata oltre che strategica per il prossimo triennio». Eravamo sempre a 10 anni fa …
I tagli alla sanità “pubblica”, quindi, partono da lontano, ovvero, dal 1997 e, secondo il rapporto OASI del 2008, vedevano passare i PL “Pubblici” nel 2007 da circa 270.000 a 170.000, mentre i “privati accreditati” restavano sostanzialmente costanti … In Italia, il servizio sanitario nazionale può contare su circa 191.000 posti letto per le degenze ordinarie. Il 23,3% è nelle strutture private “accreditate”, ovvero 44.503. Siamo quindi a 146.497 PL “pubblici”. Nel 2017 hanno prestato l’assistenza ospedaliera circa 1.000 istituti di cura, di cui il 51,8% pubblici e il 48,2% privati “accreditati”. Questo in dato assoluto, poi bisogna vedere le consistenze e le specialistiche gestite e la progressione di questi trend.
I “Welfare Day” 2011-2022 e il “Jobs Act”2014
Da quasi 11 anni in primavera prima presso i Saloni di SS. Apostoli e poi alla “Nuvola” di Fuksas a Roma si svolge il “Welfare Day”, organizzato da un “pool” di Assicurazioni private con la partecipazione dei Governi in carica, dei Partiti, della Associazioni di impresa (tutte), dei sindacati dei lavoratori (tutti), delle organizzazioni delle PMI e della Cooperazione (tutte), delle Associazioni del Commercio (tutte), delle Banche e delle Assicurazioni e delle Mutue. Ovvero la presenza di tutti i “poteri forti” del Paese.
Il meccanismo di sviluppo della “sanità integrativa” è indiretto.
Il “Jobs Act” funziona in base ad un approccio “self-reinforcing”, non è necessario “aggredire” con delle norme la “sanità pubblica”, saranno le leggi dell’economia a decidere attraverso i loro strumenti fiscali in modo progressivo e automatico tutto quello che dovrà essere, ovvero un “tipo nuovo di sanità”, in luogo di quella “universale”.
Il ridimensionamento/superamento della “sanità pubblica” è la conseguenza della combinazione di “policy” diverse:
- Quella dell’impresa il cui interesse principale è “ridurre il costo del lavoro e detassare il reddito di impresa” (quello disciplinato dal Testo Unico delle Imposte sui redditi, D.lgs. 917/1986 cd. TUIR), nella speranza del Governo di allora che, aumentando il reddito di impresa, aumentino gli investimenti e quindi cali la disoccupazione;
- Quella della speculazione finanziaria che grazie alla detassazione del reddito di impresa trova i soggetti (Assicurazioni/Mutue) e i mezzi materiali, che la rendono possibile, proponendosi così come intermediazione finanziaria tra capitale e lavoro.
Siamo sempre il Paese in cui fatto 100 la retribuzione del lavoratore, il 25,6% è relativo ad oneri del datore di lavoro, il 20,6% è relativo ad oneri per il lavoratore e solo il 53,8% è il reddito netto del lavoratore!
È ovvio che, una volta “accreditate” con il “Job Act” le Assicurazioni e le Mutue, tutto il resto viene di conseguenza, perfino un certo livello di tutela sanitaria, è ovvio che poi le Assicurazioni e le Mutue faranno il loro lavoro.
Il 20% del “welfare aziendale” è costituito da incentivi per servizi alle famiglie (nidi aziendali e borse di studio a figli meritevoli, e altro) e per l’80% è costituito da “sanità integrativa” tramite polizze collettive previste all’interno dei CCNL.
Sul “welfare aziendale” il “Jobs Act” aveva messo 21 mld di euro di defiscalizzazione, che sono stati reiterati da tutti i Governi che si sono susseguiti fino ad oggi, compresi Draghi e Meloni, per un totale di quasi 39 mld di euro. Siccome il tutto avveniva in permanenza dei vincoli di equilibrio di bilancio imposti dalla UE fino al 2020, è chiaro che i Governi hanno dovuto compensare anche sul FSN. Il che ha incentivato ulteriormente i tagli già previsti per il sotto finanziamento alla “sanità pubblica”. Ormai tutti i CCNL rinnovati hanno al loro interno il “welfare aziendale”. Siamo al quasi 100% dei lavoratori dipendenti, pubblici e privati, contrattualizzati. Tutti i lavoratori “precari” e “atipici”, prevalentemente under 40, sono esclusi dai CCNL e possono accedere a polizze assicurative, eventualmente, solo su base di versamenti volontari.
Possono iscriversi alle Mutue, se previsto negli statuti/regolamenti delle stese che hanno un impianto cooperativo, solo se in grado comunque di versare le quote sociali previste.
La “sanità integrativa” è rivolta a lavoratori dipendenti “contrattualizzati” nell’ambito dei CCNL, che sono circa il 60% dei lavoratori attuali. Sono tutti nella fascia di età prevalente tra i 18 e i 65 anni di età, considerata meno a rischio degli over 65. Infatti le Assicurazioni dopo il 65 anno di età o dopo il passaggio in quiescenza escludono il lavoratore dalla polizza collettiva a meno che non sia in grado di pagare premi assicurativi più sostenuti. Le Mutue invece non avendo obiettivi di profitto, ovvero di dividendi da pagare ai loro azionisti/soci, reinvestono gli utili nei servizi ai soci e li accompagnano per tutto il loro percorso di vita.
La “sanità integrativa” punta a monopolizzare il così detto “budget sanitario, socio-sanitario e assistenziale” delle famiglie italiane che è stimato in 53 mld di euro tra spese sanitarie non ancora “intermediate” da Assicurazioni e Mutue per 27 mld, da 9 mld di spese per assistenza familiare, da 4,2 mld di spesa per la compartecipazione ai costi dei servizi socio sanitari, da 4,1 mld di mancato reddito dei “caregiver” e da altri circa 10 mld di altre spese sostenute per la salute e la sanità dalle famiglie. Potenzialmente è quasi l’equivalente del 50% dei fondi annuali del FSN.
La “sanità integrativa” non ha l’obbligo di rispondere ai LEA, può selezionare i pazienti, non si occupa in genere di prevenzione, non deve svolgere attività di emergenza e urgenza, convenziona pochi ospedali ad alta complessità assistenziale.
La “sanità pubblica” deve assistere tutti e non può selezionare i pazienti. Ha l’obbligo dei LEA. Ha un sistema di valorizzazione dei costi basato su DRG “importati” dalla Gran Bretagna. I coti standard inglesi sono diversi da quelli italiani. Il risultato è che i nostri ospedali pubblici più lavorano, più perdono perché gli attuali DRG “coprono” solo il 65% dei nostri possibili costi standard reali. Il tentativo di immettere i “costi standard” italiani calcolati su un panel di Regioni “pesato” è ancora bloccato in sede di Conferenza Stato/Regioni/PPAA. È urgente passare da un sistema basato sui DRG a uno “value based” centrato sul percorso del paziente. Altrimenti come possono competere “sanità pubblica” e “sanità privata”?
Per altro la “sanità pubblica” deve riprendersi i lavoratori assicurati con le “polizze collettive” della “sanità integrativa” dopo il loro invio in quiescenza, se non sono in grado di pagare autonomamente i premi richiesti in base all’applicazione del calcolo attuariale (loro coefficiente di rischio).
Deve assistere comunque tutti i residenti sia coperti da “polizze collettive” che senza “polizze collettive”.
La “sanità integrativa” non deve rispettare standard pubblici di garanzia per operatori e pazienti, se non per adesione volontaria delle strutture in rete a criteri di accreditamento terzi (ISO, EFQM, altro).
Sono le Assicurazioni e le Mutue che dovrebbero, in sede di convenzionamento, prevedere un controllo di qualità delle prestazioni.
Si ascolta il CENSIS che presenta, anno dopo anno, delle relazioni molto documentate sullo stato del SSN, le sue criticità e i suoi ritardi, il suo “ritirarsi”, e, quindi, l’indicazione degli spazi di sviluppo possibili per una “sanità integrativa” che è di fatto anche “sostitutiva” di quella “pubblica”.
Il meccanismo di sviluppo della “sanità integrativa” è indiretto.
Il “Jobs Act” funziona in base ad un approccio “self-reinforcing”, non è necessario “aggredire” con delle norme la “sanità pubblica”, saranno le leggi dell’economia a decidere attraverso i loro strumenti fiscali in modo progressivo e automatico tutto quello che dovrà essere, ovvero un “tipo nuovo di sanità”, in luogo di quella “universale”.
Il ridimensionamento/superamento della “sanità pubblica” è la conseguenza della combinazione di “policy” diverse:
- Quella dell’impresa il cui interesse principale è “ridurre il costo del lavoro e detassare il reddito di impresa” (quello disciplinato dal Testo Unico delle Imposte sui redditi, D.lgs. 917/1986 cd. TUIR), nella speranza del Governo di allora che, aumentando il reddito di impresa, aumentino gli investimenti e quindi cali la disoccupazione;
- Quella della speculazione finanziaria che grazie alla detassazione del reddito di impresa trova i soggetti (Assicurazioni/Mutue) e i mezzi materiali, che la rendono possibile, proponendosi così come intermediazione finanziaria tra capitale e lavoro.
Siamo sempre il Paese in cui fatto 100 la retribuzione del lavoratore, il 25,6% è relativo ad oneri del datore di lavoro, il 20,6% è relativo ad oneri per il lavoratore e solo il 53,8% è il reddito netto del lavoratore!
È ovvio che, una volta “accreditate” con il “Job Act” le Assicurazioni e le Mutue, tutto il resto viene di conseguenza, perfino un certo livello di tutela sanitaria, è ovvio che poi le Assicurazioni e le Mutue faranno il loro lavoro.
Il 20% del “welfare aziendale” è costituito da incentivi per servizi alle famiglie (nidi aziendali e borse di studio a figli meritevoli, e altro) e per l’80% è costituito da “sanità integrativa” tramite polizze collettive previste all’interno dei CCNL.
Sul “welfare aziendale” il “Jobs Act” aveva messo 21 mld di euro di defiscalizzazione, che sono stati reiterati da tutti i Governi che si sono susseguiti fino ad oggi, compresi Draghi e Meloni, per un totale di quasi 39 mld di euro. Siccome il tutto avveniva in permanenza dei vincoli di equilibrio di bilancio imposti dalla UE fino al 2020, è chiaro che i Governi hanno dovuto compensare anche sul FSN. Il che ha incentivato ulteriormente i tagli già previsti per il sotto finanziamento alla “sanità pubblica”. Ormai tutti i CCNL rinnovati hanno al loro interno il “welfare aziendale”. Siamo al quasi 100% dei lavoratori dipendenti, pubblici e privati, contrattualizzati. Tutti i lavoratori “precari” e “atipici”, prevalentemente under 40, sono esclusi dai CCNL e possono accedere a polizze assicurative, eventualmente, solo su base di versamenti volontari.
Possono iscriversi alle Mutue, se previsto negli statuti/regolamenti delle stese che hanno un impianto cooperativo, solo se in grado comunque di versare le quote sociali previste.
Uno dei punti di maggior vantaggio dei Fondi Interativi Sanitari è la loro deducibilità fiscale, fissata a €. 3.615,20 al 2013, questo mentre l’investimento medio pro-capite pubblico in Italia per la sanità è di circa €. 2.470,00 contro i circa €. 3.473,00 pro-capite della Francia e i circa €. 4.477,00 pro capite della Germania.
Quindi lo stato italiano consente alla “sanità integrativa” un tetto pro-capite di spesa deducibile fiscalmente, ovvero pagata con le tasse, che è circa 2,5 volte il tetto di spesa pro-capite previsto nel FSN per tutti i cittadini.
Quindi il lavoratore con CCNL in cui è previsto un tetto di deducibilità delle polizze collettive da “sanità integrativa” può accedere al SSN per un contributo pro-capite pari a €. 2.470,00 come tutti i cittadini residenti più fino a circa €. 3.615,20 di tetto di spesa media delle polizze collettive della sanità “integrativa” = €. 6.085,20!
Ci sarebbero da fare delle considerazioni sui “garantiti” e sui “precari” a proposito di diseguaglianze di salute.
Infine, siccome il welfare aziendale è soprattutto (come dice la Legge di Stabilità 2016) un “welfare contrattuale di secondo livello”, l’”out of pocket” da riconvertire dovrebbe provenire da persone con un contratto e con una contrattazione di secondo livello. Siamo sicuri che tutto l’”out of pocket” abbia un contratto da usare per riconvertirsi in coperture assicurative e/o mutualistiche?
I dati disponibili, vedi “Rapporto CREA 2021”, ci descrivono un’altra situazione e ci dicono che la spesa privata ha un carattere:
- Individuale perché dipende dal particolare bisogno che una persona ha in un certo momento;
- Contingente perché dipende dalla situazione in cui si trova una persona;
- Opportunistico nel senso che nel bisogno si decide ciò che è più conveniente dal punto di vista dei costi (ad esempio rispetto ai ticket per molte persone è più conveniente rivolgersi direttamente al privato), degli accessi (dove si fa prima), delle garanzie (dove è meglio andare);
- Localistico perché dipende dalla Regione in cui si trova e dallo stato dei servizi del SSR.
Inoltre ricordiamoci che il peso della sanità “accreditata” nella spesa complessiva del Servizio Sanitario Nazionale nel 2018 è stato pari a “€. 392,00 per abitante, pari al 20,3% della spesa complessiva del SSN in aumento rispetto al 2017 (€.362,00, 18,8%)”.
Secondo la ricerca “Pubblico e privato nella sanità italiana” condotta dall’Università degli Studi di Milano, il SSN fornisce a “gestione diretta” il 63% dei servizi richiesti dai pazienti (€. 69,8 mld), mentre “acquista” dal settore privato “accreditato” il restante 37% (€. 41,5 mld),
Quindi il SSN e i SSR sono i primi clienti per la sanità privata “accreditata” acquistando il 60% delle sue prestazioni, paria a un valore, appunto, di €. 41,5 mld.
Secondo il Rapporto CENSIS sulla sanità pubblica e privata tutto questo crea disservizi e disuguaglianze.
In media, secondo i dati CENSIS, bisogna aspettare più di 60 giorni per poter accedere alle strutture del SSN, mentre si ricorre spesso a visite specialistiche e ad analisi sia in strutture private “accreditate”, che spesso hanno il doppio regime, sia private “private” perché non si trova posto nel pubblico, o non lo si trova nei tempi che servono, spendendo circa €. 580,00 all’anno.
Il CENSIS ritiene che lo sviluppo della sanità privata “accreditata” sia dovuto al “federalismo sanitario che ha favorito disuguaglianze territoriali sempre più marcate. Nelle Regioni del nordest la spesa sanitaria privata assolve prevalentemente a una funzione integrativa del Servizio Sanitario Nazionale. Nelle Regioni del centro sud invece la spesa sanitaria privata risponde a due bisogni fondamentali: la riduzione delle liste di attesa per i ricoveri e la gestione delle lungodegenze in assenza di una adeguata assistenza territoriale”.
Non siamo il Paese che spende di più per la sanità e la salute nella UE, anzi siamo tra quelli più contenuti come spesa. Siamo sotto la media UE, quindi, potremmo salire almeno fino al 7,2% del PIL. Oggi con il nuovo NADEF 2022-26 siamo al 6,2% tendenziale. Ovvero siamo a -1,0% sul PIL rispetto alla media UE.
L’Ocse in un recente rapporto fotografa la situazione europea dopo due anni di pandemia.
La spesa italiana pro capite è sotto di €. 550,00 rispetto alla media UE ed è sotto di €. 2.200,00 rispetto alla Germania e sotto di €. 1.200,00 alla Francia … Per quanto riguarda la spesa sanitaria, sempre l’OCSE conferma per il nostro Paese un dato molto inferiore a quello della maggior parte dei paesi occidentali con una spesa media pro capite a parità di potere d’acquisto di 4.038 dollari americani che ci pone al 20° posto in classifica.
I tagli al FSN in questi anni dal 2012 al 2019, che già ricordato, sono stati pari a circa 37,5 mld di Euro.
Inoltre dopo il “Jobs Act” (2016) è stata finanziata, sempre a carico della fiscalità generale, la defiscalizzazione delle polizze sanitarie e dei premi delle mutue fino a €. 3.200,00 pro-capite nell’ambito del così detto “welfare aziendale” di cui “magna pars” è la “sanità integrativa”. Il montante consolidato in questi anni è stato di circa 39 mld di Euro ad oggi. Non è una semplice coincidenza contabile.
È il frutto di scelte consapevoli e trasversali che hanno coinvolto tutti i così detti “poteri forti” del nostro Paese. La fine del SSN/SSR rischia di essere determinata dalla presunzione di coloro che pensano di sapere che cosa occorre fare per curare le persone senza troppo ascoltarle.
Lo sviluppo della presenza della sanità “privata” non può essere lasciato alle dinamiche di mercato.
Con tutta la buona volontà chi è “profit” non può essere “universalista” ed “equo” … Sono logiche antitetiche e conflittuali da gestire e mediare solo da parte pubblica.
La sanità “privata” va regolarizzata, monitorata e valutata in base a standard di servizio e agli obiettivi di salute ricompresi nei “Piani di Salute” o “Piani Territoriali e/o di Zona” delle ASL, in collaborazione con gli Enti Locali e le loro forme associative in un approccio da “Società della salute”, vedi l’esperienza in Toscana. Ovviamente nei contesti locali dove le comunità sono strutturate e proattive.
I politici hanno il coraggio di dirlo? Come pensano di governare la transizione? Sono in grado di dire a fasce importanti della popolazione che saranno escluse dal diritto alla salute in modo sempre più esplicito e attivo?
Ridurremo il SSN e i SSR a qualcosa di simile al “Family Care” e a “Medicare” negli USA, ovvero, a programmi di tutela della salute per le fasce deboli della popolazione?
La sanità pubblica ancora oggi gestisce in netta prevalenza tutte le attività riferibili all’emergenza urgenza, alle reti cliniche tempo dipendenti e buona parte di quelle per le malattie croniche nonché i 3/5 dei posti letto per acuti.
La sanità pubblica e in generale le pubbliche amministrazioni gestiscono anche la maggioranza delle attività di prevenzione, che fino ad oggi non hanno mai interessato soggetti privati, quali la politica di tutela del clima dell’ambiente, degli alimenti, delle acque, la medicina scolastica. Per la medicina dello sport e del lavoro, invece, abbiamo una presenza molto significativa di operatori sanitari autonomi (medici delegati), in convenzione o privati “privati”.
Man mano che ci si allontana dall’area della “acuzie/emergenza/ospedalità”, ancora prevalentemente presidiata dalla sanità pubblica, aumenta il numero dei soggetti terzi non pubblici che operano nelle filiere assistenziali. RSA, residenze di vario tipo e genere, centri diurni, ambulatori e laboratori di analisi, “accreditati” con le ASL. Nel mondo dell’ADI poi abbiamo mediamente oltre un 80% di erogatori “accreditati”.
Anche i MMG, i PLS, i “medici di continuità assistenziale”, i SUMAI, e le “guardie turistiche” sono tutti “convenzionati” con i vari SSR, come per altro i farmacisti. Ognuno di questi soggetti è portatore di suoi interessi specifici che vanno riconosciuti e mediati con l’interesse generale di salute.
Chi se non il “pubblico” può e deve svolgere questo lavoro di riallineamento degli interessi “privati” presenti nelle filiere assistenziali su obiettivi di salute generali?
Chi se non il “pubblico” ha i dati e la visione di insieme per svolgere analisi di “stratificazione dei bisogni di salute”, vedi incipit del PNRR?
Chi se non il “pubblico” può elaborare e proporre policy di “medicina di popolazione”, di “medicina di comunità”, di “medicina di prossimità”, di “continuità assistenziale”?
Il privato, per sua natura non ha tra le sue finalità quelle di essere equo e universalista. Deve giustamente combinare i fattori produttivi in sua disponibilità per raggiungere obiettivi di redditualità perché deve remunerare il capitale investito. Non ha i vincoli e le regole di trasparenza del “pubblico” e deve rispettare solo le “specialità” per cui si è accreditato e i contratti d’attività con i relativi “tetti di spesa” assegnati che poi è libero di gestire come meglio ritiene. Se, poi le ASL avranno difficoltà nello svolgere attività di controllo e di monitoraggio, sarà sempre la legge di mercato a spingere l’operatore privato a cercare di ottimizzare la sua gestione, riducendo i costi e aumentando quindi i margini di gestione nell’ambito del tetto di spesa assegnato. La possibile conseguenza di ciò, soprattutto se l’imprenditore non è capace sarà che la qualità dei servizi erogati ne soffrirà. Anche questo è il mercato …
Non è un giudizio morale, è una constatazione oggettiva.
Il settore privato “privato” è sempre esistito e ha risposto storicamente a fette di domanda relativa alle persone in grado di pagare di tasca propria o di pagarsi volontariamente polizze assicurative o mutualistiche in base alle proprie disponibilità di reddito. Quest’area è stata fortemente incentivata dall’introduzione del “Job Acts” che ha al suo interno provvidenze per il “welfare aziendale”.
I Governi che si sono succeduti dal 2008 ad oggi hanno per esigenze di bilancio, vedi i vincoli di stabilità UE, tagliato il FSN e quasi azzerato i Fondi per le Politiche Sociali e quelli per la Non Autosufficienza.
Nel contempo però per il “welfare aziendale” e per la “sanità integrativa” sono stati trovati sempre i finanziamenti utili. Tutto questo impatta sulla struttura reddituale del Paese. Chi non ha un CCNL può usufruire solo della quota capitaria del FSN, chi ha un CCNL ne ha due, quella pubblica e quella “integrativa” … Le diseguaglianze di salute non possono che aumentare a dismisura ….
- Ripensare la Riforma del Titolo V della Carta Costituzionale, che così come è cristallizza le differenze dei SSR e parcellizza il diritto alla salute;
- Completare il processo di aziendalizzazione in sanità garantendo gli strumenti necessari ai manager pubblici per agire gestioni efficaci e efficienti, anche in deroga con la normativa vigente, come in permanenza della pandemia;
- Coinvolgere tutti gli attori delle filiere assistenziali in Piani di salute delle popolazioni in cui ricomporre e riconoscere gli interessi dei singoli erogatori in una logica, però, di “agenzie di salute pubbliche” e di governo integrato dei processi;
- Affermare una governance del sistema salute del nostro Paese in cui le policy sanitarie, sociosanitarie e sociali e di salute siano agite dal lato della lettura dei bisogni delle popolazioni e non dal lato della riproduzione nel tempo di una offerta che spesso ne induce la domanda, ma non sempre, anzi spesso, la distorce e non ne segue l’evoluzione;
- Coinvolgere realmente le comunità, i cittadini, i pazienti, l’associazionismo e il Terzo Settore, nella partecipazione sia alla progettazione sia al controllo dei processi assistenziali e garantire in tal modo la qualità delle prestazioni erogate.
Il Governo in carica è sintonizzato su questa prospettiva? I segnali per ora arrivati e la Legge di Stabilità 2024, nonostante lo stato di conclamata emergenza del SSN, sembrano andare, in continuità con i Governi precedenti, verso una strisciante privatizzazione del SSN e dei SSR …
Segretario Nazionale ASIQUAS, Docente DiSSE, Università “Sapienza”, Roma
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