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Giovedì 21 SETTEMBRE 2023
Non si risolve il problema della contenzione cambiando la sua denominazione



Gentile Direttore,
Il lungo dibattito filosofico fra essenzialismo e nominalismo prende nuova forma in psichiatria in talune ridefinizioni terminologiche che vorrebbero cambiare la natura effettiva delle cose.

Non ci riferiamo alle terapie cognitive che avevano suggerito come una ridefinizione terminologica delle situazioni permettesse al paziente una loro lettura diversa, con importanti conseguenze su umore, ideazione e comportamento. O alla proposta di cancellare dalla nosologica il termine “schizofrenia”, perché connesso irrimediabilmente a una visione prognostica grave e sfavorevole, che favorisce lo stigma. Ci riferiamo invece ad una questione più limitata e di tipo organizzativo.

Mentre aspetti etici, scientifici e linee di indirizzo spingono per la progressiva riduzione e l’auspicabile superamento della contenzione, i timori per la posizione di garanzia, e le ristrettezze di personale che ostacolano prevenzione e gestione ottimale delle situazione di agitazione, operano spesso in senso inverso, portando comunque a legare i pazienti.

In questo dilemma è emersa in un servizio del Veneto (e non crediamo che sia il solo in Italia) la fantasia di cancellare la contenzione ed i problemi connessi sostituendo le cinghie di contenzione con uno stanzino dedicato, chiamato “stanza di decompressione”.

Il termine, che richiama suggestivamente i problemi del riemergere dalle profondità degli abissi della psiche, è senz’altro accattivante.

Il problema è: cambia la realtà della contenzione? Ed i che modo lo fa?

Credo che il primo aspetto sia che, al di là del nome, di fatto comunque si tratta di una forma di contenzione, che amplia, e solo di poco dispetto alle cinghie, la possibilità di movimento del ricoverato, rappresentando comunque quella limitazione non rimovibile dalla persona che è intrinseca alla definizione di contenzione. E’ vero che anche il TSO in SPDC di fatto può rappresentare una limitazione alla libertà dei pazienti, ma è indubbio che le possibilità di movimento e la situazione complessiva sono ben diverse. Un conto è essere ricoverato in un reparto, un conto finire chiuso in uno stanzino, anche perché finisce inevitabilmente per essere anche uno stanzino di isolamento, in cui vengono a mancare tutta una serie di aspetti relazionali, tutt’altro che indifferenti per un essere umano, specie in situazione di crisi. Manca il contatto con gli altri pazienti, e se poi lo stanzino è perfezionato tecnicamente con un monitoraggio a telecamere, finisce per mancare anche il contatto con il personale. Con il rischio che infermieri e medici vengano facilmente vissuti solo come carcerieri che monitorano la situazione e si fanno vivi per somministrare terapia e pasti. E non so proprio come possa essere assicurato il contatto con i familiari … Pensare che lo slogan di moda in ospedale è “umanizzazione delle cure” …

I pochi lavori pubblicati al riguardo sottolineano infatti non solo la mancanza di vantaggi clinici delle varie forme di contenzione, a fronte dei rischi importanti, ma le importanti questioni etiche che pongono e mettono in difficoltà anche il personale.

Ed oltre che clinicamente ed eticamente, in che maniera poi si pone giuridicamente questo sequestro di una persona in una stanza, che non può certo ritenersi autorizzato come conseguenza di una disposizione di trattamento obbligatoria in SPDC? Quali sono i controlli e le garanzie per il paziente per qualcosa che, già come contenzione, consente al personale poteri incontrollati che nemmeno un giudice ha, e, se per giunta è solo una stanza di “decompressione”, rischia di pensare di non doversi nemmeno giustificare come contenzione, rasentando un arbitrio totale nella privazione di libertà personale?

Ed in che maniera si pone relativamente a tempi e modalità con la sentenza della Cassazione del 2018 che indica confini molto netti all’intervento contenitivo, giustificato dallo stato di necessità?

La mia impressione è che uno stanzino di contenzione ed isolamento (perchè questa è la definizione corretta.. quella essenzialista..., e fra l’altro l’unica che si trova in letteratura scientifica) non risolva alcun problema relativo alle contenzioni ed loro superamento, ma anzi rischi di aprire problemi ancora più ampi su tutti i fronti.

Due riflessioni in margine a questa vicenda. La prima è che la contenzione continua ad essere un argomento conosciuto solo per auspici e raccomandazioni ministeriali, ma della cui realtà relativamente alle pratiche effettive ed i loro numeri (in psichiatria e negli altri reparti) non si parla. Ed è un po’ difficile agire su qualcosa di cui non si parla e di cui non si conosce la entità effettiva. Come in tanti altri ambiti la psichiatria fatica a prendere atto di quella che è effettivamente la propria realtà

La seconda è che è una psichiatria in condizioni veramente estreme quella che spera di risolvere il problema della contenzione cambiando la sua denominazione, senza poter disporre delle risorse di personale ed organizzazione per poter gestire in reparto in modo ottimale le situazione di agitazione, e soprattutto costruire una assistenza territoriale dove le crisi vengano prevenute e gestite tempestivamente per non trovarsele improvvisamente, in condizioni ormai drammatiche, in reparto.

Andrea Angelozzi
Psichiatra

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