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Il privato per la salute e in sanità: quali prospettive? Non vi è dubbio che il rapporto tra pubblico e privato in sanità sia uno dei nodi irrisolti. E per chi ragiona da anni su questi temi viene alla mente un documento prodotto in ambito CNEL nel 1996 (sotto la presidenza di Giuseppe De Rita) nell’ambito del Gruppo di Lavoro sulla “mercatizzazione” del sociale, dal titolo “Statualità, mercato e socialità nel Welfare”. Il documento analizza il rapporto tra pubblico e privato nel sociale e nella sanità, a partire dalla considerazione della necessità di individuare soluzioni praticabili rispetto alla revisione del sistema da più parti reclamata (anche ad esempio dalla Legge delega Amato del 1992[1]). Un sistema che è messo a dura prova da due fattori: da un lato “i cambiamenti della cultura della salute e l’avanzare di un protagonismo nuovo da parte dei pazienti”; e dall’altro la realtà di un mercato pubblico-privato non regolato, “un mercato sociale caratterizzato da alta responsabilità individuale e di gruppo e da accentuato pluralismo dei soggetti erogatori dei servizi”. In altre parole un “mix di fatto tra elementi tipici del modello universalistico, elementi di quello categoriale-professionale ed elementi di carattere individuale e fiscale”. “Un mix che non soddisfa”, queste le precise parole del documento[2] in quanto “non in grado di assicurare la base minima di benessere da legare ai diritti di cittadinanza, di definire e tutelare i limiti massimi di compatibilità per le prestazioni e la domanda, di contemperare le logiche dominanti di carattere burocratico e corporativo con logiche di partecipazione, di rappresentanza e di responsabilità, di imboccare una strada di maggiore dinamismo e flessibilità, da accompagnare ad oculatezza e attenzione nella distribuzione delle risorse”. L’ipotesi con cui il contributo si conclude è quella di una revisione del modello di welfare attorno a 4 diverse funzioni: di indirizzo, coordinamento e valutazione la prima; di allocazione delle risorse, gestione dei fondi e acquisto dei servizi la seconda; di produzione e gestione dei servizi la terza; di utenza, partecipazione e controllo dal basso la quarta. Funzioni che possono essere attribuite a diverse soggettualità, anche private, dai cittadini e loro rappresentanze (in un’ottica di empowerment), alle assicurazioni, ai fondi sanitari, alle aziende; ma sotto l’egida di un coordinamento pubblico ben calibrato e serrato, di una integrazione sia verticale che orizzontale, con rispetto della sussidiarietà e soprattutto con un ruolo forte di livello strategico e di orientamento da parte della statualità, centrale e regionale, rispetto alla socialità ed al mercato. Come sappiamo, nulla è successo dopo la Delega Amato rispetto a questa importante questione, nonostante i tentativi dei decreti 502 del 1992 e 517 del 1993[3], che cercavano di indirizzare la legislazione nella direzione di una sorta di concorrenza regolata tra pubblico e privato, un “quasi mercato”, simile per certi aspetti ai modelli di welfare continentale di tipo assicurativo, nel primo, ed una più chiara definizione del ruolo del privato nel fornire prestazioni aggiuntive rispetto a quelle del SSN, il secondo. E le riflessioni del documento del CNEL sono rimaste lettera morta, tanto è che oggi ci ritroviamo di nuovo a constatare come buona parte dei mali della sanità siano ascrivibili al mancato rispetto dell’equità e dell’universalismo e alla mancanza di una regolazione dei rapporti tra pubblico e privato. Per cui occorre ripartire da lì e da quel modello incompiuto a 3 gambe. Per quanto riguarda la statualità (per riprendere la terminologia del documento CNEL del 1996) e la sua promessa di universalismo, la situazione è andata via via peggiorando, anche a causa della approvazione nel 2001 della riforma del Titolo V della Costituzione sul decentramento amministrativo[4], che ha ampliato ruolo e competenze delle autonomie locali ed ha fatto crescere le differenze e le disparità, sia in termini di offerta di servizi che in termini di modalità di accesso. L’indebolimento progressivo e costante del Servizio Sanitario Nazionale dal punto di vista delle risorse pubbliche destinate, particolarmente accentuato fino al 2012, e mai sanato adeguatamente nel periodo successivo, ha ulteriormente contribuito ad esacerbare il rapporto tra pubblico e privato, con il ricorso crescente da parte dei pazienti a prestazioni private in tutto e per tutto sostitutive di quelle pubbliche, a causa delle tante aree di cura lasciate scoperte o trattate dal pubblico in maniera non adeguata, da un lato; e per lo sviluppo delle forme di autotutela e di “fai da te”, di cui il cosiddetto processo di “badantizzazione” dell’assistenza ai soggetti fragili e malati è l’esempio più eclatante, dall’altro. La cosiddetta “sanità negata” stigmatizzata nel documento del ’96, ma anche nei rapporti RBM Salute - Censis dei Welfare Day del secondo decennio del secolo[5], nel libretto del 2004 scritto con Giuliano Cazzola con il titolo di “Welfare fa da te”[6], ed anche nelle ricerche condotte da CREA-Sanità tra 2017 e 2020 per incarico della Cgil Funzione Pubblica su tempi e costi delle prestazioni nei diversi regimi[7], è più che mai attuale oggi. La “giungla di un’offerta scoordinata tra pubblico e privato” e le dimensioni crescenti della spesa out of pocket (di tasca propria), sono sempre più drammaticamente evidenti. E poco o nulla hanno potuto i vari tentativi messi in campo e sostanzialmente falliti, per affrontare la questione come: il Progetto “Mattoni” della Ministra Turco sui tempi di attesa, il lavoro dell’Agenas sui sistemi di prioritarizzazione, il varo del primo Piano Nazionale di governo delle liste di attesa del 2010, e tutti i successivi fino ad oggi, le già citate indagini di RBM Salute e Censis, e le rilevazioni del Tribunale per i diritti del Malato, di Gimbe, di CREA-Sanità e del Censis. I dati più recenti, resi ancor più drammatici dall’impatto della pandemia, confermano la crescita del fenomeno della rinuncia alle prestazioni sanitarie (Forgone care, più dell’11% della popolazione nel 2021 secondo l’Istat), e l’inadempienza rispetto ai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) da parte di tutte le regioni anche se in misura diversa (chi più chi meno). Tant’è che nel 2022 Ocse e UE nel Rapporto Health at a Glance, l’analisi annuale sulla sanità[8], segnalano la crescita marcata dei cosiddetti “bisogni non soddisfatti” (unmet needs), e Oxfam conferma la presenza di una vera e propria povertà sanitaria derivante dall’insostenibilità per le famiglie della spesa out of pocket, specie quella legata ai cosiddetti eventi sanitari “catastrofici”. Diseguale presenza delle strutture sanitarie pubbliche sul territorio e nelle diverse regioni; rinuncia alle prestazioni sanitarie per motivi economici e/o di disponibilità dei servizi; spesa out of pocket, e spesso in nero, per l’assistenza domiciliare e la riabilitazione; spesa privata out of pocket per prestazioni sanitarie ambulatoriali non disponibili in temi adeguato nel pubblico; ticket di compartecipazione alla spesa e tariffe relative alle prestazioni erogate in regime di Intramoenia; welfare sanitario aziendale e d forme di mutualità sanitaria collettiva; debolezza delle tipologie di sostegno economico ai disabili e cronici; sono tutti indicatori che rimandano a problemi importanti di mancato rispetto del diritto ad un accesso equo di tutti i cittadini alle cure necessarie e di monetizzazione dei bisogni e della stessa appropriatezza delle cure. Per quanto riguarda la seconda gamba del sistema, la sanità privata, la sua crescita è implicita rispetto al processo di privatizzazione dei consumi di cui abbiamo detto. Come dichiarato dalle Regioni nella recente Audizione al Senato, l’aumento della platea di beneficiari delle forme integrative di assistenza sanitaria è strettamente collegato al debole finanziamento della sanità pubblica. Il che crea una situazione grave di disparità tra chi è nelle condizioni di usufruire di una copertura assicurativa o mutualistica aggiuntiva e chi questo vantaggio non lo possiede. Dal punto di vista dei servizi erogati, il privato accreditato attualmente eroga il 70% delle prestazioni di lungodegenza e riabilitazione (le cosiddette prestazioni post-acute), il 65% di quelle ambulatoriali, il 25% di quelle per acuti (con alcune Regioni ben al di sopra come il Lazio al 50% e Lombardia al 40%) e l’84% delle Rsa. Mentre dal punto di vista della spesa, nel 2021, la spesa sanitaria complessiva, pari a 168 miliardi di euro, è stata per il 75,6% a carico delle amministrazioni pubbliche (127 miliardi), per il 21,8% a carico delle famiglie (36,5 miliardi) e per il 2,7% a carico di regimi di finanziamento volontari[9]. E grida vendetta il rapporto patologico e decisamente contrario ai principi del Servizio Sanitario Nazionale che si è venuto configurando tra servizi offerti in regime di SSN (sia a gestione pubblica che a gestione convenzionata), con la sola copertura del ticket di compartecipazione alla spesa (benché diseguale per territori e in alcuni casi troppo pesante per le tasche delle famiglie), e servizi offerti dalle stesse strutture (pubbliche e convenzionate) in regime di Intramoenia, o di Privato Sociale, vale a dire in regime sostanzialmente pubblico ma con costi maggiori e soprattutto con liste di attesa separate e molto più brevi (per effetto del maggiore costo a carico delle famiglie e dunque di una selezione economica impropria della domanda e degli accessi). E che ne è della terza gamba, quella della socialità? Ha continuato a lavorare sotto traccia, attraverso l’associazionismo di patologia[10], le organizzazioni dei pazienti, le variegate forme di partecipazione, coprogettazione[11] ed empowerment, che pure sul territorio esistono con dimensioni ragguardevoli e funzioni molto importanti. Due esempi in particolare. Il lavoro delle famiglie, dei care-giver e dell’associazionismo nella continuità assistenziale, nella cura dei non autosufficienti, nella prevenzione e nell’outreach, vale a dire quella sanità attiva che va alla ricerca della propria utenza e dei bisogni più urgenti da soddisfare. Il primo. E secondo il ruolo delle tecnologie abilitanti per l’informazione, la comunicazione e l’empowerment dei cittadini nel rapporto con i servizi, grazie a prodotti e processi orientati all’inclusione sociale e al superamento delle barriere all’accesso[12]. È interessante notare che tra i tanti cambiamenti provocati dalla pandemia, vi è anche quello di aver evidenziato l’importanza del ruolo della società civile, della comunità e del privato sociale nel promuovere la salute. Come dichiarato dai medici dell’Ospedale Papa Giovanni di Bergamo il 21 marzo 2020 in un importante articolo[13]: per la salute e per “le epidemie, che provocano vere crisi umanitarie”, è necessario un approccio di popolazione, di territorio e di comunità. Una dimensione che ora ha una chance per emergere grazie agli investimenti previsti nelle Missioni 5 e 6 del PNRR, che ha raccolto almeno in parte il messaggio, prevedendo il rafforzamento della medicina del territorio (Case e ospedali di comunità, assistenza domiciliare, punti unici di accesso, collaborazione con il terzo settore). Grazie a questa nuova impostazione, che deriva in primis dal Programma Next generation UE, il rapporto malato tra pubblico e privato in sanità potrebbe forse ora risolversi positivamente. I punti all’ordine del giorno sono, innanzitutto la piena attuazione all’approccio One Health e “Salute in tutte le politiche”, ed il necessario ripensamento della progettazione urbana e territoriale (le cosiddette Healthy cities[14]) come del mondo del lavoro e della formazione, secondo quanto espresso anche nel documento dell’ASviS “Salute e non solo sanità”, curato dal Gruppo di lavoro del Goal 3 nel 2020 allo scoppio della pandemia[15], che sottolinea in particolare il rapporto da ricostruire in forma rinnovata tra sociale e sanitario e la lotta alle sovrapposizioni e agli sprechi. In secondo luogo il PNRR potrebbe essere l’occasione per invertire la rotta del definanziamento, come dichiarato dalle Regioni nella recente audizione, che chiedono di “valorizzare l’attività dei fondi integrativi indirizzandola verso quelle prestazioni aggiuntive rispetto ai livelli essenziali di assistenza oppure verso quelle prestazioni che tradizionalmente il Servizio Sanitario Nazionale eroga in modalità più limitata (es. prestazioni odontoiatriche, prestazioni sociosanitarie), evitando di duplicare le prestazioni sanitarie che sono già erogate dalla sanità pubblica”. In terzo luogo occorre aprire, o riaprire, un dialogo costruttivo con il mondo delle mutue e assicurazioni, rispetto al quale è interessante notare che molte regioni hanno colto le difficoltà e le lacune sul proprio territorio di riferimento ed hanno iniziato a considerare il mondo della sanità integrativa come un mondo da valorizzare e da sfruttare ai fini di una maggiore efficienza ed efficacia di intervento. Facendo riferimento al lavoro approfondito condotto dal prof. Campedelli e presentato nell’ambito di un convegno realizzato a Venezia a novembre 2016[16], molte regioni hanno iniziato a prendere provvedimenti di vario tipo. E quarto, per sciogliere i nodi di un rapporto disarticolato e per molti versi patologico tra pubblico e privato in sanità occorre anche rivedere la questione del rapporto tra diversi erogatori dei servizi, tra diversi regimi all’interno delle stesse strutture di erogazione, e tra regole diverse di accesso a seconda del regime dei pagamenti, abolendo la distinzione tra liste di attesa per pazienti in regime di SSN con solo ticket e pazienti in Intramoenia e Privato sociale. Utopia? Previsione azzardata? La realtà del benessere e della salute e della loro tutela si sta muovendo, sia in termini di domanda che di offerta, e abbiamo di fronte a noi un problema di dimensioni molto grandi rispetto all’obiettivo della salvaguardia dell’universalismo. Un universalismo che potrà essere tutelato solo se saremo in grado di mettere in campo strumenti e regole nuove, più adeguate e più consone alla necessità di far fronte a un quadro epidemiologico pesante secondo una logica di appropriatezza e di giustizia sociale, assieme a elementi nuovi atti a promuovere una collaborazione più avanzata tra pubblico e privato ed una valorizzazione eticamente fondata dell’impegno in termini di risorse delle famiglie e dei pazienti, ed anche del mondo della sanità integrativa. Vogliamo sperare che la spinta di resilienza trasformativa innescata dalla pandemia apra una stagione nuova di ridefinizione dei ruoli e di più adeguata tutela della salute individuale e collettiva. Carla Collicelli Note: [1] Parere sulla legge di delega n. 421/1992 [2] C. Collicelli, Percorsi di implementazione, in: Rapporto su: statualità, mercato e socialità nel welfare, CNEL 14 marzo 1996 [3] Decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 502 recante “Riordino della disciplina in materia sanitaria, e Decreto legislativo 7 dicembre 1993 n. 517, recante Modificazioni al decreto legislativo 30 dicembre n. 502 [4] Legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 [5] Il primo: RBM Salute Censis, I fondi sanitari tra integrazione, sostituzione e complementarietà, Censis 2012 [6] G. Cazzola e C. Collicelli, Welfare “fai da te”, come e quanto gli italiani pagano di tasca propria per le prestazioni sociali, Rubbettino 2000 [7] Il primo: CREA Sanità, Osservatorio sui tempi di attesa e sui costi delle prestazioni sanitarie nei sistemi sanitari regionali, 27 1 2018 [8] Oecd EU, Health at a Glance: State of health in the EU cycle, 2022 [9] C. Collicelli, Le politiche socio-sanitarie 2022, in corso di stampa in CNEL, Le performance della PA 2023 [10] Si veda ad esempio il progetto del CNR per la partecipazione dei pazienti e delle loro associazioni ai trial clinici, Carta dei principi e dei valori, ethical toolkit per la partecipazione delle associazioni di pazienti ai trial clinici, 2020 [11] Si veda l’interessante lavoro: Euricse, Research Report n. 26/2023, Abilitare la collaborazione, presupposti, vincoli e condizioni della co-progettazione in Italia, Euricse Provincia di Trento 2023 [12] Si veda ad esempio il progetto Arsenal.IT (Regione Veneto), ESCAPE, SUSTAINS, @Two!Salute! e Clicca la tua salute!. Censis, Sanità digitale e impatto sociale, lo stato dell’arte della sanità digitale in Veneto ed il rapporto con i cittadini, Censis marzo 2016 [13] Nacoti M. ed altri (2020), At the Epicenter of the Covid-19 Pandemic and Humanitarian Crises in Italy: Changing Perspectives on Preparation and Mitigation, NEJM Catalyst, Innovation in Care Delivery, March 21 2020 [14] Intergruppo parlamentare Qualità di vita nelle Città, HCI; C1, Manifesto La salute nelle città: bene comune, 2023 [15] ASviS, Salute non solo sanità, come orientare gli investimenti in sanità in un’ottica di sviluppo, Position paper Gruppo di lavoro sul Goal 3, 2020 [16] M. Campedelli, Riconfigurare l’universalismo? Sanità integrativa e Servizio sanitario nazionale per nuove tutele del diritto alla salute, in: Politiche sanitarie 2015;16/1:1-6
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Lunedì 17 LUGLIO 2023
Pubblico, privato e comunità. Una collaborazione multi-attoriale per le nuove sfide della sanità
La realtà del benessere e della salute e della loro tutela si sta muovendo, sia in termini di domanda che di offerta, e abbiamo di fronte a noi un problema di dimensioni molto grandi rispetto all’obiettivo della salvaguardia dell’universalismo. Un universalismo che potrà essere tutelato solo se saremo in grado di mettere in campo strumenti e regole nuove
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