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Martedì 28 FEBBRAIO 2023
Corte dei conti: “Il regime di intramoenia non consente di erogare prestazioni gratuite”. Condannato medico a risarcire 70mila euro alla Asl tra danni patrimoniali e di immagine
L’attività A.L.P.I., per sua natura è attività a titolo non gratuito che consente al dirigente medico di effettuare eventualmente la rinuncia solo alla quota di sua spettanza, ma non di certo a quella pubblica che deve essere percepita e fatturata, mediante l’uso esclusivo del sistema informatizzato di prenotazione con obbligo di fattura e con l’espresso divieto per il medico di riscuotere direttamente i compensi per le prestazioni. LA SENTENZA DELLA CORTE DEI CONTI
Il medico ospedaliero dipendente del SSR in regime autorizzato di A.L.P.I. – c.d. intramoenia allargata – è tenuto al pieno rispetto di tutti gli obblighi e i doveri derivanti dalla disciplina in materia, non avendo la facoltà di effettuare visite professionali o comunque di erogare altre prestazioni assolutamente gratuite, visto che in quella veste riceve i pazienti ed effettua visite ed altre prestazioni specificamente previste nelle relative autorizzazioni, ognuna contrassegnata dai codici del Nomenclatore regionale, dai tempi di esecuzione e dai relativi compensi.
Il pieno rispetto di tutti i limiti e i doveri imposti dalla regolamentazione primaria e secondaria, così come presupposta e specificata dai provvedimenti che specificamente autorizzano il medico all’esercizio dell’A.L.P.I., deve ritenersi strumentale allo svolgimento di tale attività che, indiscutibilmente si configura quale espressione di un servizio pubblico finalizzato ad integrare l’offerta assistenziale dell’Azienda sanitaria.
Questa l’espressione usata dai giudici contabili nel ritenere il sanitario in questione, responsabile del danno erariale causato all’Azienda nell’adottare condotte contrarie ai propri doveri di servizio liberamente sottoscritti, consistenti, tra l’altro, nel convogliare tutte le richieste di prestazioni tramite il sistema di prenotazione centralizzata e nel farle seguire da fatturazione.
L’attività A.L.P.I., per sua natura – come indicato anche nello stesso Regolamento aziendale – è attività a titolo non gratuito che consente al dirigente medico di effettuare eventualmente la rinuncia solo alla quota di sua spettanza, ma non di certo a quella pubblica che deve essere percepita e fatturata, mediante l’uso esclusivo del sistema informatizzato di prenotazione con obbligo di fattura e con l’espresso divieto per il medico di riscuotere direttamente i compensi per le prestazioni.
D’altronde, è lo stesso Nomenclatore delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale erogabili nell'ambito del SSN – nel classificare le prestazioni specialistiche e le relative tariffe di riferimento, replicate in ambito regionale da corrispondenti nomenclatori regionali – a prevedere, accanto alle cc.dd. prime visite, le successive visite di controllo, con relative tariffe, imponendo una distinzione valida e vincolante sia per chi effettua la prescrizione sia per chi è tenuto alla conseguente gestione ed erogazione delle prestazioni e riscossione dei tickets o dei compensi anche in ambito A.L.P.I.
Da qui, la conseguente esclusione della possibilità di erogare prestazioni totalmente a titolo gratuito, quand’anche a soggetti legati da rapporti amicali e/o familiari e caratterizzate anche da informalità o comunque prive di una effettiva necessità terapeutica o diagnostica, come affermato dal professionista nell’intento di minimizzare l’elemento psicologico che ha contrassegnato la formazione del danno erariale di cui è stato chiamato a rispondere con riferimento alla parte di compenso professionale, corrispondente alla percentuale di pertinenza aziendale, non riscossa o riversata, e quindi anche a quella parte di prestazioni asseritamente effettuate a titolo gratuito o parzialmente gratuito, emergendo anche per queste il danno per la mancata riscossione della percentuale di spettanza dell’Azienda Ospedaliera di appartenenza.
La tesi difensiva fondata sull’assunto che le nuove registrazioni avrebbero potuto significare una sola modifica della terapia già assegnata, senza un nuovo accesso all’ambulatorio del sanitario, è stata ritenuta priva di fondamento perché non provata.
Nel caso in commento, giuridicamente si è riscontrata un ipotesi di c.d. occultamento doloso, posto in essere dallo stesso sanitario, disvelato non solo dalle indagini bancarie ma anche dalle ulteriori verifiche effettuate sia presso lo studio medico, dove la registrazione delle prestazioni effettivamente erogate erano celate nei files del proprio p.c., sia per effetto degli ulteriori riscontri derivanti dall’esame della contabilità dell’Azienda Ospedaliera, che hanno consentito di appurare la differenza tra le prestazioni eseguite e quelle regolarmente fatturate.
La gestione diretta dei pazienti, bypassando completamente il sistema centralizzato di prenotazione, assieme alla omessa fatturazione delle prestazioni, riscosse in contanti, non solo consentiva al professionista di appropriarsi dell’intero compenso corrisposto, omettendo di versarlo alla propria Azienda Ospedaliera, ma altresì gli evitava le conseguenze del monitoraggio ulteriore previsto dalla legge (art. 15-quinquies, co. 3 del d.lgs. 502/1992 e, poi, dall’art. 22- bis del decreto-legge 223/2006), che impone che l'attività libero-professionale non debba superare, sul piano quantitativo, nell'arco dell'anno, l'attività istituzionale dell’anno precedente, al fine cioè di contenere e governare lo svolgimento dell’A.L.P.I. nel rispetto dell’equilibrio tra attività istituzionali e libero-professionali e di assicurare la riduzione delle liste di attesa.
In merito, il Tribunale ordinario per il procedimento penale di competenza ha anche disposto la confisca dei ricavi che non ha tenuto luogo del risarcimento del danno erariale, atteso che per la natura di pena accessoria che riveste, con il preciso scopo di togliere definitivamente al condannato le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e le cose che ne sono il prodotto o il profitto, si differenzia dalla condanna in sede contabile che ha natura risarcitoria del danno subito dall’Azienda pubblica.
Ciò perché la confisca dei ricavi non è stata ordinata dal giudice penale in favore dell’Azienda Ospedaliera a cui si è limitato a trasmettere la decisione (come dispone l’art. 154 ter disp. att. c.p.p.) e, quindi, senza ristoro alcuno per l’Azienda del danno monetario subito.
Le stesse, infatti, sono state incassate, come d’uso, dal Ministero della Giustizia per confluire nel Fondo Unico di Giustizia, previsto dall’art. 61, co. 23, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.
A differenza delle somme oggetto di condanna contabile che, invece, per avere una funzione risarcitoria, hanno la precisa finalità di reintegrare il patrimonio dell’Amministrazione danneggiata dal professionista dipendente, in esecuzione della quale, purtuttavia, si dovrà tenere conto di quanto possa essersi effettivamente già avvantaggiata l’Azienda Ospedaliera, per effetto dell’attuazione o dell’adempimento spontaneo di detto provvedimento.
Da ultimo, i giudici contabili hanno riconosciuto la sussistenza, oltre che di un danno patrimoniale, anche di un danno all’immagine dell’amministrazione sanitaria, per la diffusione avuta dalla vicenda all’esterno dell’ambiente strettamente professionale, nonché a causa del provvedimento disciplinare adottato dall’Azienda che è stato riconosciuto aver avuto un indubbio riflesso negativo a carico dei colleghi del sanitario i quali, ugualmente autorizzati all’esercizio dell’A.LP.I. hanno, invece, tenuto comportamenti corretti.
In definitiva, il professionista è stato condannato a risarcire all’Azienda Ospedaliera della somma di € 35.231,28 per danno patrimoniale, ed € 35.000,00 per danno all’immagine con una sostanziosa riduzione rispetto a quanto prevede la norma.
Fernanda Fraioli
Consigliere della Corte dei conti
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