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Gentile Direttore, Con la legge 18 ottobre 2001, n. 3, approvata da una maggioranza di centrosinistra (Governo Amato II°) e poi confermata da referendum (nel frattempo era subentrata al Governo una nuova maggioranza di centrodestra guidata da Berlusconi), veniva riformato il titolo V della Costituzione, che trasferiva molti poteri dallo Stato centrale alle Regioni, dando di fatto piena attuazione all’articolo 5 della Costituzione che riconosce le autonomie locali quali enti esponenziali preesistenti alla formazione della Repubblica. Veniva, in sostanza, trasformato il nostro Stato in uno stato federale con la suddetta riforma chiamata "Federalismo a Costituzione invariata" (1.59/1997). Il tema è quello del livello di governo più adatto a prendere le decisioni in campo sanitario. Il servizio sanitario viene definito nazionale perché deve avere un’organizzazione e un funzionamento uniforme sul territorio e il diritto alla salute deve essere uguale in Lombardia come in Calabria. Regionalismo, riconoscimento delle autonomie non vogliono dire costituzione di repubbliche indipendenti dove, malauguratamente, Lombardia e Calabria non seguono, come dice, sempre, il prof. Cassese, le “best practice“ del Lazio. Claudio Testuzza
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Martedì 07 FEBBRAIO 2023
Serve una nuova valutazione del Titolo V
con molta chiarezza Cavicchi su Quotidiano Sanità ha rilevato che nella proposta Calderoli la scelta politica fatta sia stata quella di non chiedere al Parlamento un atto di interpretazione o di reinterpretazione del titolo V ma di dare per scontato che l’atto di indirizzo già esiste ed è quello definito con la contro-riforma del titolo V del 2001.
La riforma riconosceva alle Regioni l’autonomia legislativa, ovvero la possibilità di legiferare norme di rango primario “… anche per la tutela della salute” . È una cosa giusta che la sanità sia in capo alle Regioni?
Costituzionalisti come il Prof. Cassese e la stessa Corte hanno indicato che: “in sanità occorra assicurare un’unica ed esclusiva regia nazionale. Le misure di contrasto possono anche essere differenziate per territorio, ma debbono essere omogenee, nel senso di ispirarsi agli stessi criteri generali”.
Non si tratta, quindi, di una battaglia ideologica tra fautori del regionalismo e fautori del centralismo. Ma va recepito, che un sistema decentrato per funzionare richiede che lo Stato abbia la capacità di intervenire quando sia necessario e non, come sfortunatamente è accaduto, di cercare compromessi invece di agire più d’imperio.
A questo punto, se dobbiamo essere realisti, il Titolo V della Costituzione, quello che riguarda le Regioni, la Province, e i Comuni richiede una nuova valutazione nel senso che certamente alcune funzioni dovranno ritornare dalle Regioni allo Stato ma anche, è possibile, in qualche caso viceversa. Alcuni compiti possono ora essere trasferiti anche alle Regioni.
Il percorso politico riguarda, allora prevalentemente la riforma della Costituzione. Bisognerebbe, quindi, intraprendere un serio percorso tecnico-economico per definire quella che gli economisti chiamano la dimensione ottimale dell’erogazione dei servizi pubblici. E poi, sulla base di queste valutazioni, proporre interventi nel settore mediante l’uso della democrazia diretta attraverso anche lo strumento della legge costituzionale di iniziativa popolare come, giustamente, propone Cavicchi.
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