quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Lunedì 14 NOVEMBRE 2022
Il privato nella sanità. È ora di rivedere regole e ruoli

Ciò per due ordini di motivi: per il deviante uso che si fa da decenni dell’istituto dell’accreditamento, cui fa troppo spesso pedissequo seguito la stipulazione dei contratti (ex art. 8 quinquies, vigente d.lgs. 502/1992) e per la necessità di sopperire alla crisi di liquidità che soffre lo Stato, tale da rendergli impossibile finanziare gli investimenti senza i quali la sanità pubblica è destinata a morire

La sanità post Covid necessita di un sensibile e profondo riordino. Nell’immediato, di quello correttamente attuativo delle regole esistenti, spesso confusamente applicate. Nel breve, di quello della sua disciplina complessiva, non solo da rivedere in senso profondamente autocritico ma anche di apertura alle nuove forme di collaborazioni occorrenti con il privato finanziatore.

Ciò per due ordini di motivi: per il deviante uso che si fa da decenni dell’istituto dell’accreditamento, cui fa troppo spesso pedissequo seguito la stipulazione dei contratti (ex art. 8 quinquies, vigente d.lgs. 502/1992); per la necessità di sopperire alla crisi di liquidità che soffre lo Stato, tale da rendergli impossibile finanziare gli investimenti senza i quali la sanità pubblica è destinata a morire.

La “collaborazione” tradizionale
Al primo dei problemi, che sta generando una mappa complessivamente distorta dell’offerta di salute reale - peraltro compromessa da una sorta di coinvolgimento, non infrequente, dell’operatore professionale pubblico negli interessi di quella privata accreditata -, offrirebbe rimedio il corretto ossequio della stessa disciplina regolatrice dell’istituto, spesso regionalmente vilipesa dalla prassi burocratica.

Da qui, un accreditamento che è oramai divenuto sempre di più strumento creativo di business, rilasciato a mano libera quasi sempre senza la ineludibile programmazione che l’imponga. Quella programmazione che costituisce il baluardo per definire il fabbisogno assistenziale che una regione esprime, cui occorre necessariamente rimediare attraverso, per l’appunto, il trinomio autorizzazione (non ostativa alla pianificazione dell’offerta di salute regionale), accreditamento e accordi contrattuali.

Un’attività - quella relativa al rilascio dell’accreditamento (ma anche alla autorizzazione all’esercizio erroneamente non negata ad alcuno per una incredibile confusione che si fa nella lettura dei dicta della Consulta) - da svolgere pertanto nell’esclusivo interesse pubblico allo scopo di assicurare all’utenza tutta la copertura del fabbisogno epidemiologico dalla stessa espresso.

Di conseguenza, aperto all’intervento privato individuato per differenza tra il fabbisogno generale – rilevato, verificato, aggiornato e programmato - meno quello assicurato dal pubblico erogatore, maggiorata nella misura massima del 10%, garante delle eventuali diminuzioni di offerta nel periodo di durata dell’accreditamento. Non solo. Occorre fare ciò assicurando la maggiore distribuzione della relativa erogazione per branca specialistica, evitando ogni forma di affollamento nei centri urbani ovvero nella prossimità di nuclei ad alta intensità demografica ma anche a tutela dell’utenza periferica.

Invece no. Non si rileva il fabbisogno epidemiologico e il rischio epidemico e si accontenta un po’ tutti, generando una eccessiva sopportazione dei costi fissi alle strutture pubbliche, di frequente carenti di domanda e non raramente di mancato funzionamento (quantomeno, colposo se non doloso) della pratica tecnologica più costosa, “giustificativa” della formazione di insopportabili liste di attesa e, quindi, causa di dirottamento dell’utenza verso il privato erogatore, anche come richiedente solvente (rectius, a pagamento). Il tutto, con conseguente disagio dei più bisognosi, destinati a sopportare la più vergognosa angheria sociale di ritardare diagnosi precoci salvavita.

Di tutto questo ne sono piene le regioni, specie le solite reprensibili che trattano la programmazione come “la peggiore suocera si comporta con la nuora”. Bistrattata a tal punto da esser frutto del peggiore ”copia e incolla”, senza la preventiva rilevazione dei dati epidemiologici sul territorio e la corretta analisi dei flussi, quasi sempre bugiardi, incompleti per non dire assenti, per assenza di statistici e informatici utili allo scopo.

Insomma, a prevalere è, quasi sempre, l’interesse privato (dei peggiori, trattandosi della salute delle persone) su quello pubblico. Un tema sul quale occorre intervenire sia con leggi di modifica alla oramai consumata disciplina regolatoria, statali e di dettaglio, che di radicale stravolgimento delle procedure inficiate dalle abitudini assunte da una burocrazia spesso compiacente se non addirittura in combutta con il privato imprenditore.

Tutto questo, imponendo un sistema, quello cosiddetto delle “3A”, (autorizzazione, accreditamento e accordi istituzionali), fondato su una rigida programmazione dell’offerta salutare complessiva, da rendere comunque esigibile alla collettività, e pianificazione dei rispettivi rilasci in favore dell’aspirante privato, subordinati esclusivamente al fabbisogno epidemiologico emergente, messo in relazione - al fine di estendere, come detto, per differenza, le attività accreditate, per l’appunto, al privato erogatore - con l’offerta assicurata direttamente dal sistema pubblico, anch’esso in possesso di accreditamento istituzionale.

Concludendo, la massima: senza rilevazione del fabbisogno epidemiologico niente programmazione funzionale a soddisfarlo; senza programmazione niente autorizzazioni (fatta eccezione per quelle, in difetto di rilascio, generatrici di impedimento a svolgere in studio attività professionale sottoposta al relativo possesso), e accreditamenti al privato, da rilasciare per differenza con l’offerta pubblica già attiva e contestualmente programmata, complessivamente impegnate a conseguire gli obiettivi pianificati.

La “collaborazione” di nuova specie (ma anche quella poco frequentata)
Veniamo al secondo punto, riguardante il coinvolgimento del privato imprenditore nel finanziamento delle opere pubbliche destinate alla salute. Ciò nella debita considerazione che la nuova sanità digitalizzata e ad alta tecnologia richiede volumi di investimento, materiale e immateriale, e tecniche di valutazione degli interventi di consistente accrescimento dello stock di capitale. Impegni di risorse impensabili rispetto alla sanità tradizionale, cui necessita l’apporto finanziario degli imprenditori privati che si propongono a sopperire al difetto di offerta pubblica, penalizzata dalla frequente mancanza di risorse da destinare ad hoc.

Ciò allo scopo di progettare e realizzare, in una siffatta dimensione e tipologia erogativa, un concreto ed efficace rilancio della offerta sociosanitaria, divenuta negli ultimi decenni a dir poco disagevole, arrivando finanche a violare i diritti spettanti in tal senso alla persona umana, soprattutto di quella residente nelle difficili periferie del Mezzogiorno.

La soluzione a tutto questo va ovviamente rintracciata, dando per scontata la sopravvivenza dell’attività gestoria del SSN fondata sulla aziendalizzazione del sistema salute, nell’intensificamento del ricorso allo strumento delle sperimentazioni gestionali, costitutive e regolative degli specifici e differenziati rapporti tra i privati imprenditori, via via interessati sulla base dei loro background, anche culturali e le aziende sanitarie e/o le Regioni, scandito all’art. 9 bis del vigente d.lgs. nr. 502/1992.

Attraverso la intensificazione del ricorso ad una tale metodologia gestoria, invero modestamente utilizzata dalla sua introduzione a regime, intervenuta con le consistenti modifiche recate alla anzidetta riforma bis (1992) dal d.lgs. nr. 229/1999, verrebbe a determinarsi un diffuso nuovo “contratto” funzionale tra la pubblica amministrazione sociosanitaria e l’impresa privata. Un fenomeno, positivo e generativo di un’ulteriore tipologia di rapporto, che andrà a porsi affianco a quelle improntate dalla più generate competizione che caratterizza la convivenza erogativa del privato e del pubblico, realizzata in regime di concorrenza amministrata, finalizzata a migliorare la qualità dell’offerta di salute.

In proposito, è appena il caso di sottolineare l’esigenza irrinunciabile di sviluppare in tal senso apposite e qualificate politiche regionali generatrici di programmazioni specifiche. Ciò, quale step politico-programmatico indispensabile ed essenziale per affrontare un siffatto genere di esperienza di imprenditoria «mista», da estendere largamente attraverso esperienze di costituzione di forme “societarie” di scopo, intese ad assicurarsi finanche, in via preventiva a partire dalla primitiva previsione e dall’approccio alla programmazione, l’acquisizione di competenze di project e program management,

Il tutto propedeutico a frequentare e mettere in piedi strumenti realizzativi di project financing ovvero di build-operate, prevalentemente del tipo build–operate–transfer (Bot) e build–own–operate–transfer (Boot), con il relativo impegno a perfezionare una legislazione regionale, afferente alle modalità realizzative delle diverse opzioni generative di iniziative di partneriato pubblico/privato.

In relazione, agli anzidetti strumenti di scuola anglosassone ci si limita qui a sottolineare l’occasione mancata di non ricorrervi sin dalla fase di programmazione e progettazione delle opere finanziate con il PNRR. Per converso, si è preferito lasciare gli adempimenti relativi in mano ad una burocrazia inadatta a sviluppare un tale genere di incombenze. Ciò in quanto divenuta tale per lo più a causa della oramai consolidata disabitudine della PA di frequentare investimenti di così vasta portata tecnico-economica, tanto da rendere finanche inadatte allo scopo le istituzioni di diretta emanazione governativa (es. Invitalia e CDDPP), alle quali in tantissime pubbliche amministrazioni territoriali stanno rivolgendo la loro attenzione attraverso la concessione di appositi mandati esecutivi.

In riferimento agli anzidetti rapporti contrattuali, molto frequentati nei Paesi anglofoni ma anche nelle diverse Regioni italiane, è appena il caso di anticipare qui l’idea di pervenire ad un loro utilizzo per una corretta esecuzione delle strutture e iniziative introdotte dal DM77 e finanziate dal PNRR da perfezionarsi, magari, mediante accordi “consortili” di PPP. Di conseguenza, il privato assumerebbe l’obbligo di finanziare e gestire un insieme di progetti regionali su larga scala a fronte dello sfruttamento dei servizi direttamente connessi alle opere rese funzionanti e funzionali per la durata di qualche decennio. Il tutto delegato, quanto a concreta esecuzione delle opere, a singoli contratti Bot, costituenti ciascuno la regolazione dei rapporti di finanziamento, realizzazione e gestione delle corrispondenti iniziative insite nell’anzidetto accordo di partenariato pubblico-privato.

Piu ricorso strumentale privato
D’altronde, una tale opzione si è resa via via più naturale, attese le difficoltà riscontrate a seguito della distorsione generatasi nel rapporto di erogazione al pubblico delle prestazioni essenziali.

Considerata, quindi, l’insufficienza del ricorso a modelli erogativi fondati sul rapporto accreditamento/accordi contrattuale, si evidenzia l’urgenza - anche per sopperire allo stato di precarietà e obsolescenza che presenta l’organizzazione strutturale ospedaliera pubblica di una parte importante del SSN, spesso neppure accreditato perché non in linea con i requisiti obbligatori richiesti dal DM70 del 2015 - di addivenire alle anzidette forme contrattuali garanti del rinnovamento del patrimonio produttivo, della efficace manutenzione e di una erogazione di servizi più pronta e di qualità migliore, garanti del cambiamento e della rigenerazione dell’erogazione salutare.

L’anzidetta ipotesi realizzativa delle opere, nella specie destinate ad erogazione dei Lea, cui viene altresì assicurata dal partenariato pubblico privato la completa funzionalità assistenziale che vada ben oltre la sola “messa a terra”, andrebbe a determinare un interessante spaccato ove vigerebbe la regola: più privato complice del rafforzamento dell’intervento pubblico.

Di conseguenza, la pubblica amministrazione sociosanitaria, qualora segnatamente decisa in tale senso, potrebbe/dovrebbe determinarsi in favore di una siffatta soluzione al fine di tutelare maggiormente, ancorché per via parzialmente mediata, l’interesse pubblico di salvaguardare al meglio la salute delle persone. Ciò attraverso la ricerca delle attività da mettere in piedi per il suo conseguimento e lo strumento giuridico più adatto per la sua compiuta realizzazione, individuando l’imprenditore più idoneo, in quanto espressione delle necessarie capacità finanziarie, economiche nonché delle cognizioni tecniche e del bagaglio di competenze specialistiche funzionali alla realizzazione del progetto programmato.

Ettore Jorio
Università della Calabria

© RIPRODUZIONE RISERVATA