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Sbrogliare le matasse di fili di pensiero intrecciati è sempre un lavoro molto complesso che richiede calma, capacità di osservazione, ricerca e metodo scientifico; per individuare poi i capi dei singoli fili che appaio indistinti, è indispensabile acquisire criteri teorici di orientamento e differenziazione. Quando poi la matassa riguarda una ricerca culturale che parla di noi stessi: della nostra storia, delle nostre conquiste, della nostra identità politica e professionale e della nostra visione dell’uomo e del mondo, la prudenza ci consiglierebbe di rimanere fermi ad aspettare che il tempo chiarisca. Mi riferisco alla storia della riforma psichiatrica in Italia ed alla complessità dei temi che questa contiene ed intercetta in un groviglio che, alla luce delle attuali criticità che affliggono i servizi di salute mentale, bisogna studiare con attenzione e senza pregiudizi, soprattutto perché, nel toccare temi scientifici, professionali, deontologici, etici, ma anche antropologici, l’argomento si presta a strumentalizzazioni politiche che noi, professionisti della salute, dovremmo imparare ad argine per proteggere la relazione terapeutica da condizionamenti esterni. Ringrazio per questo Ivan Cavicchi per aver avviato, con il suo ultimo libro: Oltre la 180, un dibattito, possibilmente laico, su un tema che in molti ambienti culturali viene ritenuto, “invariante” e quindi intoccabile. In verità quando ho letto il titolo sono rimasto positivamente sorpreso dal coraggio, e non ho avuto quel moto di rigetto proprio di chi si ritiene custode di una verità storica assoluta, per preconcetti ideologici, che impediscono di andare oltre la gloriosa storia della riforma sanitaria; ammetto che personalmente pur nella difficoltà oggettiva di interpretare una realtà storica complessa, come quella dei servizi di salute mentale, sono avvantaggiato nel leggere in modo critico la storia della psichiatria in Italia, perché come medico psichiatra e psicoterapeuta sono cresciuto e mi sono formato nell’ambito di una ricerca, quella dell’Analisi Collettiva di Massimo Fagioli, che ha sempre intrapreso lo studio sulla mente umana e sulla sua patologia partendo da un approccio clinico professionale, laico, pragmatico e scientifico, fuori da schemi rigidi e precostituiti. Fagioli ha sempre rifiutato impostazioni dogmatiche strutturate sulla scissione tra mente/corpo, teoria/prassi, medicina/psichiatra, psichiatria/psicoterapia. Oggi è tra gli autori più studiati nel panorama internazionale con la proposta di una teoria sul fisiologico sviluppo della psiche, o mente umana, che rappresenta un’innovativa proposta scientifica e antropologica, libera appunto da condizionamenti o da preconcetti ideologici. Nel mese di Novembre p.v. verranno celebrati, in un convegno internazionale che si terrà a Roma, i cinquant’anni dalla pubblicazione di Istinto di Morte e Conoscenza, il primo dei suoi 4 libri fondamentali. Devo quindi a questa formazione la possibilità di rileggere con un approccio disponibile alle critiche ed aperto al cambiamento l’attuale assetto della ricerca psichiatrica e dei servizi di salute mentale. Dall’altra parte da dirigente sindacale che rappresenta i professionisti garanti della salute delle persone, non posso oggi sottrarmi alla responsabilità di contribuire a sviscerare, insieme ai pregi, anche le criticità che ostacolano processi di innovazione e di riforma dei servizi. In questo senso il libro di Cavicchi rappresenta anche un’occasione per approfondire tematiche molto sentite dagli operatori sanitari, gli Equilibristi, come li definisce l’Autore, “sono gli operatori della salute mentale che si occupano delle esistenze delle persone e tra le altre cose, anche dei loro equilibri nei contesti di vita e di lavoro, di ogni età e di ogni condizione sociale” e poi esorta: “spostare il tiro dai soliti servizi agli equilibristi, sono loro il vero servizio non è più possibile sotto-intenderli come è stato fatto fino ad ora” denuncia giustamente Cavicchi, ed in realtà sotto “tiro” gli operatori ci sono stati e ci stanno, ma non per essere valorizzati, organizzati, finanziati o sostenuti, ma al contrario troppo spesso per essere denigrati o peggio accusati di cattive pratiche. Purtroppo negli anni si è consolidata un’immagine negativa degli operatori, forse come retaggio dell’approccio manicomiale, che li fa apparire come violenti custodi e tutori della sicurezza sociale e non come garanti della salute delle persone. Laddove al contrario sono le lacune del sistema, da quelle finanziarie strutturali a quelle di personale che ricadono sulle responsabilità degli operatori sanitari. Le carenze di risorse che soffocano di fatto tutto il Servizio sanitario nazionale, nella prassi condizionano negativamente ed irrimediabilmente l’agire terapeutico ed impediscono una presa in carico reale delle persone, costringendo gli operatori a quotidiani “equilibrismi” creativi nella ricerca di risorse e progetti che spesso sono causa di conflitto con le istituzioni, con i cittadini o peggio con pazienti, familiari e tra operatori stessi. Ma le criticità della riforma su cui Cavicchi ci invita giustamente a riflettere, non sono da ascrivere solamente a tematiche organizzative o economico-finanziarie, che peraltro sono il frutto delle politiche di definanziamento degli ultimi 20 anni, ma alle “contraddizioni della sovrastruttura culturale” sulla quale è nata negli anni 70 la riforma. Tra i temi affrontati nel libro, credo sia fondamentale approfondire la marginalizzazione del ruolo della prassi terapeutica e la negazione della patologia mentale, che nella sbornia esistenzialista dell’antipsichiatria, ha generato un assurdo conflitto tra ideologia politica e scienza che oggi paga il conto con una visone frammentata dell’essere umano e che, con la demonizzazione della psichiatria, di fatto ha lasciato il campo libero allo sviluppo travolgente del riduzionismo organicista e della farmacoterapia. In effetti la fondamentale iniziativa politica che ha portato alla chiusura dei manicomi, alla deistituzionalizzazione ed alla costruzione di servizi multiprofessionali diffusi su tutto il territorio nazionale, non ha poi favorito la ricerca scientifica in psichiatria e psicoterapia, ma al contrario si è ad essa sostituita nella falsa illusione che l’abbattimento delle mura, la soddisfazione dei bisogni sociali degli assistiti ed il riconoscimento dei loro diritti civili oltre che assolutamente necessari, fossero di per se sufficienti per la loro emancipazione. Mentre in tutte le branche della medicina la politica sostiene o dovrebbe sostenere, lo sviluppo scientifico a garanzia della salute come bene primario della cittadinanza, come ad esempio accaduto durante la pandemia in cui la politica ha usato la scienza per contenere prima e contrastare poi la sua inarrestabile diffusione, in psichiatria abbiamo assistito ad una strana contrapposizione in cui la paura della stigmatizzazione ha portato a demonizzare l’approccio terapeutico. Affrontare oggi da una prospettiva politica di sinistra il rapporto a volte conflittuale tra ideologia e scienza medica, può diventare molto complesso e si presta a facili fraintendimenti, nella misura in cui la relazione terapeutica intrinsecamente asimmetrica tra chi propone una “cura” e chi la riceve, ci costringe a sbrogliare la matassa dei temi professionali, etici, deontologici, scientifici e culturali. In psichiatria, parola peraltro anch’essa travisata e demonizzata nella negazione del suo significato etimologico di cura della psiche e non del cervello, la prassi terapeutica viene vista troppo spesso come coercitiva e come lesiva della dignità e della libertà personale. Per questi motivi l’operare dei professionisti esita spesso con incedere incerto ed insicuro, perché condizionato da fraintendimenti e condizionamenti esterni alla relazione terapeutica. Per approfondire credo sia necessario affrontare l’epistemologia del significato delle azioni e delle intenzioni in relazione ai contesti: un chirurgo che per operare apre con un bisturi l’addome di un paziente compie un azione apparentemente sovrapponibile a quella di un aggressore che colpisce con un coltello la pancia di un passante, ma è il contesto e la finalità che definisce l’intenzione di un’azione, in medicina è sempre la “cura” applicata nei limiti del contesto ed in coerenza delle conoscenze scientifiche acquisite, a definire l’intenzione. In psichiatria al contrario accade che la negazione della malattia e l’assenza di conoscenze scientifiche universalmente acquisite confonde l’osservatore nell’identificazione delle finalità perché il concetto di “cura” è ancora troppo indefinito. Può quindi accadere che la politica invada il campo dell’agire e del setting terapeutico, interferendo negativamente con la relazione, cosa che naturalmente non accade mai per un chirurgo in sala operatoria. E’ anche per questo che in psichiatria l’approccio sociale ha troppo spesso sostituito quello strettamente terapeutico, vissuto come riduttivo e coercitivo; stiamo parlando di un problema con il quale noi professionisti siamo costretti a confrontarci nella ricerca di un “equilibrio”, spesso precario, tra la soddisfazione dei bisogni sociali e la risposta alle esigenze strettamente terapeutiche, abbiamo bisogno di trovare un’impostazione che rimetta in ordine i fattori per potere operare nella complessità di esigenze e bisogni delle persone con efficacia ed appropriatezza scientifica. Appare quindi evidente che in salute mentale, come sostiene Cavicchi, il problema dei servizi non può essere affrontato senza occuparci di “prassi di relazioni di soggetti”, è indispensabile, ma non è sufficiente occuparsi di risorse e di strutture, è necessario occuparsi della “sovrastruttura culturale” per un’inversione del paradigma che rimetta al centro il ruolo della ricerca scientifica, della prassi terapeutica, della formazione degli operatori e dell’identità professionale per districare una matassa che favorisca una proficua collaborazione tra politica e scienza medica per la conoscenza e la cura come realizzazione umana e liberazione dalla malattia. Abbiamo bisogno di rimettere al centro la “cura” nella complessità della realtà mente/corpo, in cui psichiatria e psicoterapia siano lo strumento indistinto nella centralità della relazione terapeutica, per liberare le persone dalle catene della malattia, per renderli autonomi e non dipendenti dall’istituzionalizzazione dei servizi nella gestione dei propri bisogni personali e sociali. Il consenso scientifico internazionale è concorde nel ritenere che in salute mentale è indispensabile prevenire la cronicità della patologia, attraverso l’individuazione precoce della malattia e le cure tempestive. in effetti la vera coercizione per le persone affette da patologia mentale sta nella condanna all’incurabilità della cronicizzazione che oggi è diventata la vera causa di istituzionalizzazione. Mettere in ordine i fattori tra ricerca scientifica, formazione professionale, prassi terapeutica e bisogni sociale con il sostegno della politica, è un dovere su cui Cavicchi ci sollecita ed al quale non possiamo sottrarci per rilanciare la promozione della salute psicofisica delle persone come bene comune della cittadinanza. Andrea Filippi
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Lunedì 03 OTTOBRE 2022
Forum 180. Andrea Filippi: “Il problema non è solo organizzativo, è anche scientifico”
La fondamentale iniziativa politica che ha portato alla chiusura dei manicomi, alla deistituzionalizzazione ed alla costruzione di servizi multiprofessionali diffusi su tutto il territorio nazionale, non ha poi favorito la ricerca scientifica in psichiatria e psicoterapia, ma al contrario si è ad essa sostituita nella falsa illusione che l’abbattimento delle mura, la soddisfazione dei bisogni sociali degli assistiti ed il riconoscimento dei loro diritti civili oltre che assolutamente necessari, fossero di per se sufficienti per la loro emancipazione
Medico psichiatra
Segretario nazionale FPCGIL Medici e Dirigenti SSN
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