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Venerdì 30 LUGLIO 2010
Farmaci oncologici: approvazioni più difficili?

Il National institute for health and clinical excellence (Nice) britannico e la Food and drug administration restringono le indicazioni di Avastin: nel caso del cancro al seno i benefici sono minimi rispetto ai costi elevati.
E c’è chi si chiede se si tratta dell’inizio di una nuova era più sparagnina per i servizi sanitari. 
Con interviste all'economista Federico Spandonaro e al presidente Aiom Carmelo Iacono


È un luglio nero per bevacizumab (Avastin). Il farmaco - il primo anticorpo monoclonale con azione antiangiogenica - in poco meno di due settimane ha ricevuto due sonore bocciature per il trattamento del cancro metastatico del seno in associazione con la chemioterapia. A infliggerle, due delle più autorevoli agenzie internazionali: prima il National institute for health and clinical excellence (Nice) britannico, poi la Food and drug administration. In entrambi i casi non si tratta però di sentenze definitive: il Nice ha infatti prodotto una bozza di guida, ora sottoposta alla valutazione della comunità scientifica, mentre per l’Fda si è espresso uno dei comitati scientifici (l’Oncology Drug Advisory Committee). Dovranno quindi passare dei mesi - e il vaglio di altre autorità - prima che le due opinioni possano avere la forza dell’ufficialità. Inoltre l’unica indicazione rimessa in discussione è quella relativa al trattamento del cancro al seno metastatico, mentre tutto rimane invariato per l’impiego contro gli altri tumori (colon, polmone e rene).

In ogni caso, sembra che gli interventi delle due istituzioni - seppur per ragioni diverse - abbiano tracciato una linea di demarcazione tra un prima e un dopo nelle filosofia di approvazione e rimborsabilità dei farmaci oncologici.

 

IL NO BRITANNICO

“Le evidenze sottoposte al Nice dall’azienda produttrice non mostrano la capacità di bevacizumab di migliorare o estendere la vita di pazienti con cancro al seno che si è esteso altrove nell’organismo”. Questo il giudizio del Nice, secondo quanto riportato da una nota della stessa agenzia. 

Dal trial esaminato, che ha comparato bevacizumab associato a paclitaxel con quest’ultimo in monoterapia, è emersa la capacità del farmaco di rallentare la progressione della patologia (11,3 mesi liberi da progressione della malattia per il gruppo in trattamento con bevacizumab, 5,8 per il gruppo di controllo). “Tuttavia - precisa la nota - il trial non produce risultati analoghi per i tassi di sopravvivenza totale. Mostra invece che il trattamento con bevacizumab e paclitaxel offre in media soltanto 1,7 mesi in più di vita (26,5 mesi in confronto ai 24,8 mesi per la monoterapia con paclitaxel)”. 

Le ragioni cliniche, tuttavia, non sono le uniche ad aver orientato la decisione del Nice: “questi incerti benefici clinici - aggiunge il comunicato - combinati con la quantità di denaro che si sta chiedendo di pagare per il farmaco al National Health Service, portano il Nice a non poter raccomandare bevacizumab (in combinazione con un taxano) come trattamento di prima linea per il cancro al seno metastatico”. 

Insomma, il farmaco, non dà benefici tali in termini di sopravvivenza da giustificare la spesa che comporta. Una spesa di non poco conto. “Il costo medio per paziente - secondo il Nice - è stimato in 33.649 sterline contro i 7.720 del solo paclitaxel”. 

Rifuggendo le domande di pancia che porterebbero a chiedersi se sette settimane di vita guadagnate valgano 25 mila sterline, Federico Spandonaro, docente alla Facoltà di Economia dell’Università di Roma Tor Vergata e coordinatore scientifico del Rapporto Ceis Sanità suggerisce in un’intervista a Quotidiano Sanità che “la questione va piuttosto inquadrata in un contesto di corretta allocazione delle risorse scarse. Di fronte a una disponibilità di risorse non infinita - spiega - è obbligatorio fare delle scelte”.

“Il Nice si è posto da tempo il problema dei costi”, illustra Spandonaro. “E ha deciso di impiegare il Quality Adjusted Life Year (QALY) come strumento di misura. Stabilito un tetto di spesa per ogni anno di vita in salute guadagnato grazie al farmaco, tutti i medicinali che consentano di ottenere risultati a questi costi sono ritenuti, almeno dal punto di vista economico, positivi”. Per gli altri, in servizio sanitario nazionale, non concede la rimborsabilità. 

“È un principio etico - prosegue l’economista - dal momento che in un contesto di risorse scarse, si cerca di valorizzare ciò che garantisce maggiori benefici. La soglia, non ufficialmente dichiarata è, in genere, intorno alle 30 mila sterline. Ma sui farmaci oncologici è stata finora tendenzialmente più alta”. 

Nel caso del bevacizumab “il costo addizionale per un anno di vita in salute guadagnato (ICER) si aggira sulle 118 mila sterline”, rivela il Nice, che precisa come “la stessa azienda ha riconosciuto che si tratta di un calcolo ottimistico”. 

Un costo probabilmente troppo elevato anche per la consueta flessibilità che si è adusi adottare con gli oncologici e che - come ha spiegato lo stesso istituto britannico - ha influito pesantemente sul parere. Si vedrà in futuro se la decisione inglese segna l’inizio di un nuovo corso in cui la spesa sarà molto più oculata o se è soltanto dettata dalle caratteristiche del farmaco.

 

IL NO AMERICANO

Sull’altra sponda dell’Atlantico, a pochi giorni dalla pubblicazione del documento del Nice, giunge il giudizio di uno dei comitati dell’Fda. L’Oncology drug advisory committee, con 12 voti a favore e uno contrario ha deliberato che l’indicazione per il trattamento di prima linea del cancro metastatico Her2-negativo andrà rimossa dall’etichetta del farmaco. Alla base del parere soltanto osservazioni di carattere clinico. Tuttavia, in questo caso, a mettere il pepe sulla vicenda è il percorso di approvazione del farmaco per questa specifica indicazione. 

L’Fda, nel 2008, ha concesso al medicinale la procedura di approvazione accelerata. E lo ha fatto andando contro le raccomandazioni dell’Oncology drug advisory committee che aveva espresso parere contrario con 5 voti contro 4. 

Proprio non aver mantenuto le promesse che avevano portato all’immissione in commercio accelerata è l’accusa che ora la commissione dell’Fda rivolge al farmaco. In particolare in tema di sopravvivenza libera da progressione della malattia. Se nel trial che aveva portato all’approvazione era stata di 5,5 mesi ora, nelle due nuove sperimentazioni, la durata è molto più breve e oscilla tra un mese e meno di tre. 

“Dal momento che il trattamento con Avastin è associato a una considerevole tossicità, l’ampiezza della sopravvivenza libera da progressione della malattia - specialmente se non supportata da un aumento della sopravvivenza totale - deve essere sostanziosa, clinicamente significativa e deve essere replicabile in trial aggiuntivi”, giustifica la decisione Richard Pazdur, direttore dell’Office of oncology drug products. Quanto alla procedura accelerata che aveva portato all’approvazione, “non la consideriamo un errore”, conclude.

Intanto, però, la decisione dell’Oncology drug advisory committee viene percepita come una prova del fuoco per l’Fda. Il New York Times dedica un editoriale alla vicenda, definendo la decisione che l’agenzia dovrà prendere nei prossimi mesi (scegliendo se adottare o rigettare il parere della commissione) “un test critico”. 

“Avrà il coraggio di invertire la rotta nel momento in cui un trattamento approvato sulla base di evidenze preliminari fa malamente fiasco negli studi di follow up?”, si chiede l’editorialista. “L’Fda ha raramente rimosso dal mercato farmaci ai quali era stata concessa l’approvazione accelerata e spesso ha anche fallito nell’imporre il completamento degli studi di follow up. Ma - conclude - ci sono segni che sta diventando più dura”. 

Un’affermazione, quest’ultima, che per alcuni ambienti della destra americana è la prova dell’inizio dell’era Obama anche in seno all’Fda. La decisione della commissione diventa così, per un blog, “la prima schermaglia del razionamento di guerra”. Un modo che il governo usa per “negare l’assistenza ai pazienti di cancro all’ultimo stadio - anche a quelli con un’assicurazione privata” e “per limitare i costi dell’assistenza sanitaria”.

 

LE CONTESTAZIONI DI BASILEA

“Siamo delusi della raccomandazione della commissione e crediamo che Avastin possa continuare a essere un’opzione per le donne con questa malattia incurabile”, dichiara in una nota Sandra Horning, Senior Vice President e Global Head of Hematology/Oncology Clinical Development di Genentech, l’azienda produttrice del farmaco controllata dal gruppo Roche. “Continueremo a discutere sui dati ricavati da oltre 2.400 donne che hanno preso parte a tre studi di fase III condotti con l’Fda. Inoltre queste raccomandazioni non hanno alcun impatto sugli usi approvati di Avastin per altri tumori”.

 

L’OPINIONE DEGLI ONCOLOGI

Difficile dire se la decisione dei due organismi anglosassoni si ripercuoterà sull’Italia. 

“Qualsiasi nuovo elemento valutativo derivante da studi clinici o da segnalazioni di eventi avversi gravi incide sulla accessibilità a un farmaco”, spiega a Quotidiano Sanità Carmelo Iacono, direttore del dipartimento Oncologico ASP 7 Ragusa e presidente dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom). “In ogni Stato, compresa l’Italia, sono presenti agenzia regolatorie che dinamicamente valutano gli effetti benefici di un farmaco e gli effetti negativi per decretarne la immissione o il mantenimento in commercio e la prescrivibilità attraverso il sistema sanitario. Sicuramente l’Aifa terrà conto dei risultati degli studi clinici (AVADO e RIBBON1) che hanno determinato le decisioni di Fda e Nice”.

Tuttavia, “per il carcinoma della mammella in fase metastatica esiste un importante armamentario terapeutico - prosegue Iacono - che, se correttamente gestito, consente lunghe sopravvivenze con qualità di vita buona. Frequentemente si riesce a cronicizzate la patologia”.

Quanto al peso che il prezzo del farmaco ha avuto, soprattutto sulla decisione britannica, l’oncologo precisa che “il costo del farmaco rappresenta un elemento importante di valutazione ma non è condizionante in modo assoluto. Il rapporto costo beneficio, prima valutato solo su outcome clinici, adesso viene valutato, di necessità, anche su basi economiche. Il sistema sanitario - prosegue - deve rendere compatibili necessità e risorse. Ecco quindi che un piccolo beneficio su un end point surrogato quale la sopravvivenza libera da progressione della malattia non “giustifica” il costo elevato di un farmaco mentre un piccolo incremento di sopravvivenza in una patologia “orfana” di valide terapie giustifica il costo. Il tutto - aggiunge - va valutato non sul singolo caso ma sul complesso assistenziale. La negata erogazione di un farmaco con un piccolo incremento di sopravvivenza libera da progressione della malattia in una patologia “ricca” di trattamenti consente l'erogazione di prestazioni sanitarie per  un numero importante di pazienti con trattamenti che incrementano in modo rilevante la sopravvivenza. In questa ottica va valutato il problema”. 

L’altro cardine della decisione del Nice è stato il ridotto incremento della sopravvivenza totale e, a tal proposito, ricorda Iacono, “sette settimane di vita in oncologia non sono così poche. Giova ricordare che a piccoli passi si sono raggiunte sopravvivenze importanti, superiori all’80% anche in tumori a elevata diffusione quali il cancro della mammella”.

 

 

Antonino Michienzi

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