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Anche i medici sono vittime del fenomeno meglio noto con l’espressione “Great Resignation”, il significativo aumento delle dimissioni, che vede un numero crescente di persone in numerosi ambiti lavorativi lasciare il loro impiego. Le cause che portano a questa drastica decisione sono le più svariate: dal burnout, alla ricerca di un posto che preservi il proprio benessere, al desiderio di poter avere la possibilità di gestire le giornate di lavoro difendendo il work-life balance. Complice dell’innesco di questo meccanismo è stata sicuramente la pandemia che ha nettamente peggiorato le condizioni di lavoro negli ospedali. I dati del 2020 e del 2021, tratti dal database Onaosi, confermano il persistere di una quota importante di licenziamenti (da 2000 a 3000) che si aggiungono alle uscite per pensionamento (tabella 1). Il 2020 è l’annus horribilis della prima ondata pandemica, e poi della seconda. A meno che il nuovo lavoro non fosse pianificato da tempo, i medici dipendenti hanno rallentato i licenziamenti per non abbandonare i colleghi proprio durante la peggiore crisi sanitaria dell’ultimo secolo affrontata da tutti con un ammirevole senso responsabilità, che ha valso loro l’appellativo di “eroi”. Purtroppo degli eroi ci si è presto dimenticati. Nelle ondate successive alla prima, i medici hanno lavorato sempre nella stessa approssimazione e improvvisazione organizzativa della primavera 2020. Letti, professionalità e persone riconvertiti a seconda delle necessità, senza alcuna condivisione delle decisioni. Operatori spostati come pedine, un nome in una casella, non di rado vuota, causa infezione da Sars-CoV-2. Alla gestione dei malati Covid, per i medici ospedalieri si è aggiunto il carico della campagna vaccinale e del recupero di lunghissime liste d’attesa, oramai valutabili non più in mesi ma in anni, a causa del rallentamento delle attività ordinarie per far fronte alla pandemia. Il tutto, con la aggiunta dell’enorme carico emotivo legato all’alto numero di contagi e alle morti per Covid tra gli stessi operatori sanitari, in un contesto che già lamentava pesanti carenze di organico (- 46 mila addetti tra il 2009 e il 2019). E dunque, nel 2021, riprende la grande fuga, come si evince dal grafico 1, 2886 medici ospedalieri, il 39% in più rispetto al 2020 ha deciso di lasciare la dipendenza dal SSN e proseguire la propria attività professionale altrove* (dati derivati dal database ONAOSI sulla cessazione della contribuzione obbligatoria). Ma unite da un comune sentire: i medici non vogliono più lavorare in ospedale e se ne vanno. Raramente la motivazione principale è la maggiore remunerazione. Ma la mancata applicazione in periferia del CCNL 2016/2018, firmato definitivamente nel lontano 19 dicembre 2019, la latitanza del CCNL 2019/2021, già scaduto ma nemmeno avviato alla contrattazione per mancanza dell’Atto di Indirizzo e il rinvio a un incerto futuro del CCNL 2022/2024 non possono che influire negativamente sulle scelte dei Colleghi, che decidono di abbandonare il luogo di lavoro per la scarsa considerazione che il sistema mostra nei loro confronti. Del resto, le remunerazioni, anche a causa del blocco contrattuale ultradecennale, oramai sono ridotte a circa il 50% di quelle che offrono i paesi dell’ovest europeo, che entreranno in diretta competizione con l’Italia nella ricerca di personale sanitario nei prossimi anni, potendo godere di una situazione di evidente vantaggio per la maggiore valorizzazione delle capacità professionali oltre che per gli alti salari. Anche a causa del blocco del turnover, i turni di servizio per i singoli operatori sono in netto incremento numerico negli ospedali italiani, con weekend quasi tutti occupati da guardie e reperibilità, difficoltà perfino nel godere delle ferie maturate, straordinari non retribuiti. Il lavoro non solo è diventato sempre più gravoso ma gli operatori sanitari sono costretti quotidianamente ad affrontare rischi crescenti legati ad aggressioni, sia verbali che fisiche, e denunce in sede legale. In particolare è da considerare che la presenza delle donne in sanità è in progressivo aumento e i turni disagevoli previsti dal lavoro in ospedale non consentono loro di dedicarsi alla famiglia come vorrebbero. Anche le possibilità di carriera sono state rese scarse: in Italia nel 2009 i direttori di Struttura Complessa, cioè l’apice della carriera professionale, erano 9691, nel 2019 solo 6629, il 31,5% in meno. I Responsabili di Struttura Semplice, il livello immediatamente inferiore, nel 2009 erano 18.536, dopo 10 anni il 44% in meno, cioè 10.368. Sono questi i fattori che sostengono il dato riscontrato in varie ricerche di un burnout in incremento tra gli operatori sanitari e di malattie stress correlate sempre più diffuse. Le dimissioni volontarie in questo contesto assumono il significato di un tentativo di sottrarsi ad un lavoro usurante e poco gratificante, caratterizzato da scarsi riconoscimenti e da un carico, anche emotivo, troppo elevato. Il quadro che emerge lascia presagire il progressivo declino della sanità universalistica, per come la conosciamo. Si dovrebbe considerare, infatti, che il livello attuale delle uscite (pensionamenti + dimissioni volontarie) è tale da mettere seriamente in pericolo la tenuta del SSN visto che di fronte ad uscite di circa 7.000 medici specialisti ogni anno, l’attuale capacità formativa della Università è pari a circa 6.000 neo specialisti, di cui solo il 65% accetterebbe un contratto di lavoro con il SSN. Per evitare il disastro è necessario procedere alla rapida stabilizzazione del precariato e serve un cambiamento radicale nella formazione post-laurea. Occorre, in pratica, anticipare l’incontro tra il mondo della formazione e quello del lavoro, oggi estranei l’uno all’altro, animati da conflittualità latenti o manifeste e contenziosi infiniti, consentendo ai giovani medici specializzandi di raggiungere il massimo della tutela previdenziale e al sistema sanitario di utilizzare le energie più fresche per far fronte ad una importante carenza che si prolungherà ulteriormente per almeno tre anni. La soluzione consiste nella trasformazione del contratto di formazione attuale in un contratto a tempo determinato di formazione/lavoro con oneri previdenziali e accessori a carico delle Regioni e nel conseguente inserimento dei giovani medici nella rete ospedaliera regionale. Recuperare il ruolo professionalizzante degli ospedali rappresenta la strada maestra per garantire insieme il futuro dei giovani medici e quello dei sistemi sanitari. Carlo Palermo, Chiara Rivetti, Pierino Di Silverio, Costantino Troise
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Giovedì 21 APRILE 2022
La grande fuga dagli ospedali del Ssn. Negli ultimi tre anni 21mila medici li hanno abbandonati. Lo studio Anaao Assomed
Lo studio presentato questa mattina alla convention della Fnomceo sulla Questione Medica. Dal 2019 al 2021 hanno abbandonato l’ospedale 8.000 camici bianchi per dimissioni volontarie e scadenza del contratto a tempo determinato e 12.645 per pensionamenti, decessi e invalidità al 100%. Per evitare il disastro è necessario procedere alla rapida stabilizzazione del precariato e serve un cambiamento radicale nella formazione post-laurea
Il fenomeno delle dimissioni dagli ospedali, con i medici che decidono di abbandonare il tanto ambìto e prestigioso posto a tempo indeterminato, è una evidenza recente ed è stato da noi già analizzato in un precedente lavoro (La grande fuga dagli Ospedali; Quotidiano Sanità, 2021).
Il fenomeno in sè non è nuovo ma i dati del Conto Annuale del Tesoro (CAT) evidenziano che dal 2017 in tutta Italia si assiste ad una sua vera e propria esplosione con un trend in progressivo aumento.
Nel 2021 la media nazionale dei medici dipendenti che hanno deciso di licenziarsi è stata del 2,9%, percentuale abbondantemente superata dalla Calabria, 3.8%, e dalla Sicilia, 5.18%. La Lombardia, che era già oltre la media italiana nel 2020, aumenta ancora i suoi dimessi del 43%. La Liguria in un anno triplica i medici che si dimettono, la Puglia passa dal 2.04% al 3.29 %.
Una fuga senza precedenti, da regioni con storie, organizzazioni e realtà sanitarie completamente diverse.
Cosa cercano? La domanda sarebbe d’obbligo, per chi volesse in qualche modo limitare la fuga, salvare la nave che affonda.
Cercano orari più flessibili, maggiore autonomia professionale, minore burocrazia. Cercano un sistema che valorizzi le loro competenze, un lavoro che permetta di dedicare più tempo ai pazienti e poter avere a disposizione più tempo anche per la propria vita privata, senza sacrificare la famiglia.
Se si passa poi al ruolo dei Dirigenti medici nelle Aziende si può constatare un considerevole svilimento della loro autonomia decisionale con assente coinvolgimento nei processi decisionali mentre la professionalità risulta poco premiata e per nulla incentivata. In questo contesto, il lavoro dei Medici non solo ha perso valore economico, ma anche sociale.
Il privato, pertanto, diventa sempre più attrattivo, anche per la possibilità di un trattamento fiscale agevolato del reddito prodotto. Per la medicina di famiglia o specialistica ambulatoriale si aggiunge il fatto di non prevedere il lavoro notturno e festivo. Soprattutto, il lavoro nel privato è considerato meno stressante: si affronta una casistica di elezione e la remunerazione, particolarmente in ambito chirurgico, è elevata. Il cambiamento culturale e sociologico è così forte che sempre di più i neo laureati ambiscono a specializzazioni spendibili sul mercato privato (cardiologia, dermatologia, pediatria, oculistica, chirurgia plastica…), allontanandosi da quelle considerate più gravose e rischiose (Medicina di Emergenza/Urgenza, Chirurgia Generale…) che non riescono più a saturare i contratti di formazione disponibili annualmente.
La drammatica esperienza di aver gestito le ondate pandemiche senza poi assistere a un concreto investimento nella sanità pubblica, soverchiati da slogan da propaganda, ha definitivamente tolto ogni illusione di cambiamento. Di fatto, il PNRR si sta rivelando un’operazione edilizia ed il rapporto spesa sanitaria/PIL scenderà sino 6,2% nel 2025, meno di quello che era prima della pandemia.
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