quotidianosanità.it
stampa | chiudi
Mercoledì 06 APRILE 2022
Linee Guida, luci e ombre di uno strumento di successo
Proseguono gli appuntamenti promossi dalla biblioteca online del Dipartimento di Epidemiologia del Lazio dedicati ad Alessandro Liberati a dieci anni dalla sua scomparsa. L’ultimo webinar è stata l'occasione per riflettere su un tema a lui caro e nevralgico nella medicina: le linee guida a oltre 30 anni dalla loro introduzione come uno tra gli strumenti utili per il miglioramento della qualità dell’assistenza sanitaria
Sono passati più di 30 anni da quando le linee guida sono state proposte come uno tra gli strumenti utili per il miglioramento della qualità dell’assistenza sanitaria. Nonostante sembrassero predestinate al successo, con detrattori e sostenitori comunque ben distribuiti nel mondo clinico e nel management sanitario, in tutto questo tempo abbiamo capito che la realtà non è mai facile da modificare e, tra i principi metodologici e la trasferibilità alla pratica clinica dei risultati del percorso di produzione di raccomandazioni, c’è un mare che rende ancora distante le aspirazioni di chi si richiama alla medicina delle prove. Volendo provare a fare il punto dopo tutti questi anni, la prima domanda è: in che direzione stiamo andando?
Un dialogo su questi temi è avvenuto nell'ultimo webinar organizzato dalla Biblioteca Alessandro Liberati (Bal) curata dal Dipartimento di Epidemiologia del Servizio sanitario regionale del Lazio ASL Roma 1 (DEP Lazio) col Pensiero Scientifico Editore che si è svolto il 30 marzo 2022. Come per tutti gli incontri in programma nel 2022 (anno in cui ricorre il decennale della morte del medico e ricercatore) è stato scelto un tema particolarmente vicino agli interessi professionali di Liberati ma soprattutto nevralgico per la medicina e la sanità. Con il coordinamento di Marina Davoli (direttore del DEP Lazio), hanno partecipato al meeting ospiti italiani e internazionali.
Un breve viaggio a ritroso ci ricorda come già alla fine degli anni Novanta del secolo scorso era apparsa evidente la difficoltà di ottenere un’accettabile aderenza dei professionisti sanitari alle linee guida, per diverse ragioni tra le quali la proposta di linee guida non sempre metodologicamente ben concepite, o non ritagliate ai contesti nei quali avrebbero dovuto essere applicate, o contenenti raccomandazioni che si sovrappongono ad altre già esistenti, con un effetto disorientante. Infine, per la tendenza di non pochi professionisti a confidare soprattutto nella propria esperienza, ritenendo che anche il “migliore” percorso standardizzato potesse nascondere un rischio evitabile. Così che, nel tempo, la speranza di riduzione della variabilità delle decisioni e delle scelte cliniche dei professionisti è rimasta un obiettivo inevaso.
Già nel primo decennio del nuovo secolo, uno dei problemi più evidenti era quello dell'implementazione delle linee guida nella pratica clinica. Non è un caso che molta della letteratura di quegli anni si sia occupata di questo aspetto. Ancora oggi ci ritroviamo a interrogarci su quale sia la giusta strada da seguire. Al punto di trovarsi di fronte a un bivio: va ripensato il sistema di produzione e disseminazione delle linee guida o una versione attualizzata delle raccomandazioni (linee guida 3.0?) potrebbe dare una risposta ai problemi che ancora persistono?
Cercando di mettere ordine in uno scenario complesso, l'intervento di Marica Ferri (responsabile del settore Supporto alla pratica - Public Health Unit-EMCDDA) ha sottolineato come, in assenza di un rigore nella determinazione delle priorità della ricerca a partire dai bisogni del sistema sanitario, si corre il rischio che l'agenda della preparazione di revisioni sistematiche utili alla redazione di linee guida sia dettata più dalle “preferenze” dei decisori e dei professionisti che dai bisogni di salute dei cittadini e dei pazienti. Inoltre, nel formalizzare raccomandazioni è indispensabile poter contare su un supporto politico, poiché bisogna esser certi di allocare le risorse nel modo giusto.
In questa riflessione sulle criticità del sistema, è stato pragmatico e importante l'intervento di Emilio Romanini (responsabile della commissione per le linee guida della Società italiana di ortopedia e traumatologia). D’accordo: le linee guida danno spesso risposta a esigenze sentite dai clinici ma sembriamo dimenticare che il loro utilizzo non può certo aiutare a distinguere il medico che usa le evidenze dal professionista semplicemente “bravo”. Probabilmente in ogni disciplina medica si lavora in modo diverso, ma in linea generale – sostiene Romanini - c'è la tendenza a riconoscere una sorta primato alla pratica clinica e chirurgica che molto concretamente ottiene la soddisfazione del paziente rispetto a quella che si ispira a principi, metodologie e valori più “robusti” dal punto di vista culturale, quando le due cose dovrebbero coesistere se non, addirittura, coincidere. La domanda chiave allora è: perché, dopo 30 anni, il medico “bravo” e quello che basa il proprio lavoro sulle evidenze possono non essere la stessa persona?
Lasciando la risposta a ognuno dei molti partecipanti all’incontro – la registrazione del meeting è comunque sempre disponibile online sulla pagina Facebook del DEP Lazio – Carlo Saitto, medico di sanità pubblica e già direttore generale della ASL Roma C, ha fornito elementi molto utili per spiegare il diverso punto di osservazione del decisore di sanità pubblica e del clinico. Nel migliore dei mondi – sostiene Saitto – il clinico ha la possibilità di valutare una procedura e avere risposte sulle domande che si pone nella sua pratica: la terapia è efficace? Una strategia diagnostica raggiunge l’obiettivo prefissato? Diversamente, tra gli interrogativi che non possono non essere considerati dal decisore ce ne sono diversi che riguardano la sostenibilità di un intervento o di una tecnologia: qual è l’efficacia comparativa di un determinato farmaco rispetto alle altre opzioni disponibili? I trattamenti standard sono già utilizzati al meglio? Verificando una nuova opzione terapeutica, come valutare il suo impatto sull'equità dell’accesso da parte dei cittadini? L’implementazione di questa nuova terapia richiede risorse aggiuntive? È dunque evidente come il clinico abbia bisogno di determinate prove e il decisore sanitario di altre. Come anche che il modo di presentare le une e le altre dovrebbe essere diverso.
Quindi: quali sono le strade giuste da percorrere in futuro? In parte, le ha indicate Holger Schünemann (epidemiologo della McMaster University, direttore del centro Cochrane canadese e fondatore insieme d altri del GRADE Working Group e tra i ricercatori più impegnati nella riflessione sulla metodologia di produzione delle linee guida), che durante la pandemia di covid ha guidato il suo gruppo di ricerca a superare il formato standard delle linee guida giudicandolo inadatto a uno stato di emergenza. Il modello consueto di linea guida è stato ripensato adattandolo ai risultati delle cosiddette living systematic review, che danno aggiornamenti costanti sui nuovi risultati della ricerca clinica. La Covid Recommendation Map ne è un esempio lampante [https://covid19.recmap.org/]. Diventa fondamentale quindi, ove possibile, fornire informazioni di riferimento dinamiche e vive, tali da non soffrire la necessità di aggiornamento periodico che troppe volte condiziona l’affidabilità di una linea guida.
Percorso, questo, non alternativo alla proposta che giunge da Jeremy Grimshaw (docente del Department of Medicine della University of Ottawa in Canada). Uno strumento come l'Audit & Feedback potrebbe soddisfare il bisogno di una metodologia che sostenga i processi di miglioramento della pratica clinica accanto all’adozione di linee guida costantemente aggiornate. Audit come momento di riflessione o di “autoanalisi” di un’organizzazione sanitaria (di un’unità operativa, di un dipartimento, di un’azienda sanitaria) e feedback come verifica dell’efficacia e dell’efficienza dell’implementazione delle best practice cliniche e organizzative sostenute da raccomandazioni basate sulle prove.
Come si può capire da questa breve sintesi, i problemi sono ancora molti ma questo non deve impedire lo sforzo congiunto di metodologi e clinici per superare le reciproche diffidenze e collaborare ad una cultura basata sulle prove che porterebbe benefici indubbi in termini di salute.
A cura di Tiziano Costantini e Laura Amato
Dipartimento di Epidemiologia SSR Lazio
© RIPRODUZIONE RISERVATA