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Venerdì 11 FEBBRAIO 2022
Non bastano le leggi. È indispensabile riallacciare il dialogo tra sanitari e pazienti
Gentile direttore,
il recente caso del bambino cardiopatico per il quale i genitori chiedevano solo sangue di donatori “no vax”, porta nuovamente all’attenzione il tema del rapporto fra operatori sanitari e pazienti (nel caso specifico i genitori del paziente) e, più in generale, del consenso ai trattamenti sanitari.
Nell’evoluzione storica del significato del consenso alle cure si è osservato una progressiva transizione dal “paternalismo”, in cui il medico decideva al posto del paziente, al “consenso informato”, inteso come processo di acquisizione del consenso del paziente al termine di un’adeguata informazione. Infine si è giunti al più moderno concetto di scelta terapeutica condivisa (cosiddetto “shared decision making”) in cui vengono ad incontrarsi le indicazioni fornite dal professionista e le preferenze espresse dal paziente.
Ho sempre ritenuto che quest’ultimo approccio fosse quello più adeguato ai nostri tempi e l’unico percorribile di fronte a pazienti sempre più consapevoli ed informati rispetto alle proprie patologie ed alle diverse opportunità terapeutiche.
Ma come si sa, i tempi cambiano ancora e, con loro, anche le nuove istanze del paziente. Sempre più spesso, infatti, si osservano pazienti che, di fronte ad una indicazione terapeutica, pur aderendovi, forniscono specifiche indicazioni o delimitazioni dell’agire sanitario, spesso legate a preferenze personali o a semplici convinzioni, prive di qualsiasi fondamento scientifico e che rendono estremamente difficoltosa o rischiosa l’esecuzione della prestazione stessa.
Sono state viste richieste bizzarre rispetto all’espletamento del parto (in un caso di mia memoria venivano dettate per iscritto dalla madre quali specifiche manovre potessero essere svolte dai sanitari durante il parto, anche in caso di necessità, e quali no), preferenze scarsamente motivate rispetto alle terapie da assumere, per poi giungere all’epoca pandemica in cui viene chiesto di poter scegliere uno specifico vaccino anti COVID-19 (facoltà di scelta peraltro non ammissibile, secondo una recente pronuncia del TAR dell’Emilia-Romagna).
Infine, il caso del bambino cardiopatico citato. Si è di fronte a quello che si potrebbe definire una sorta di “consenso condizionato”, ossia un consenso che viene positivamente espresso nei confronti della procedura o del trattamento ma solo a condizione che vengano rispettati determinati requisiti arbitrariamente definiti dal paziente (o dai suoi genitori, nel caso di soggetto minorenne) incurante degli effetti sull’esito e sulla richiosità del trattamento “alterato”.
E’ pur vero che la legge n. 219 del 2017 al comma 6 in qualche modo pare venire in soccorso ai sanitari (“Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”), il problema, tuttavia, si pone quando non è la prestazione sanitaria di per sé inappropriata nella sua interezza ma, come anzi detto, inappropriate sono le modalità richieste dal paziente nello svolgimento della stessa.
Orbene, molto probabilmente le risposte che giungono dalla legge o dalla giurisprudenza, pur positive, risultano insufficienti e, pertanto, l’orizzonte deve essere ampliato per poter tentare di risolvere il problema e consentire a tutti i professionisti di svolgere l’attività di cura nel quotidiano, nel migliore dei modi possibili.
E’ evidente, dunque, che il cambiamento non può avvenire solo a colpi di norme o di sentenze ma richiede la ripresa di un dialogo che, negli ultimi anni, pare essersi interrotto: quello tra sanitari e pazienti e, più in generale, tra cittadini e istituzioni. Questo rapporto va ricucito, con l’impegno in primo luogo della politica e dei mezzi di informazione, per ricostituire la fiducia alla base di qualsiasi proficua relazione di cura.
Sebastian Grazioso
Dirigente Medico di Medicina Legale
Azienda USL di Parma
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