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Martedì 19 GIUGNO 2012
Cavicchi: “Il paradigma della sanità ha bisogno di un nuovo paradigma del lavoro”

“È impossibile teorizzare un cambiamento del paradigma della sanità senza soffermarsi a riflettere sul lavoro di chi è dovrebbe mettere in atto quel cambiamento, cioè a chi è in prima linea nella sanità, vale a dire i professionisti”. Ad affermarlo è stato Ivan Cavicchi, ordinario di sociologia dell’organizzazione sanitaria e filosofia della medicina all’Università di Roma Tor Vergata, introducendo ieri pomeriggio la tavola rotonda con i professionisti della sanità promossa nell’ambito della seconda giornata di lavoro del convegno organizzato dall’Ufficio per la pastorale sanitaria della Conferenza Episcopale Italiana (Cei) dal titolo Un nuovo paradigma per la sanità in Italia. La Chiesa a servizio del cambiamento. Un paradigma che, secondo la Cei, deve essere incentrato sulla centralità della persona, sull’umanizzazione, sul dialogo e l’ascolto, sull’equità e sulla valorizzazione della dignità della persona e sulla collaborazione tra tutti i professionisti, ma anche tra tutti i cittadini, per realizzare un vero welfare solidale.

Ma “questo passaggio – secondo Cavicchi – deve necessariamente passare per il lavoro”. E la prima cosa da fare è ricordare che “il lavoro in sanità è soprattutto un servizio. Non è solo messa in funzione di procedure e tecnologie, ma un vero e proprio servizio che deve rispondere alla complessità del paziente”. Laddove per complessità si intende una serie di elementi che vanno dalla malattia alla paura, dalla famiglia ai bisogni sociali, e che tiene conto del contesto di cui il malato, come persona, fa parte. “Attenzione a non sbagliare la terminologia. È questo un malato complesso, perché un malato con tante malattie non è complesso, è complicato”, ha evidenziato Cavicchi. Ma per Cavicchi quello dei professionisti della sanità è anche "un lavoro speciale”. Perché oltre ad essere di "altissima complessità" ha anche "enormi ricadute, etiche, economiche e molte altre ancora”.

Purtroppo, ha rilevato Cavicchi, “la politica e l’economia tendono a considerare i lavoratori come un fattore produttivo da impiegare. Da cui, quindi, ottenere il più possibile al minor prezzo”. Il lavoro, per Cavicchi, “è anche quello, ma anche molto di più”. Ed è “una follia politica pensare di risparmiare tagliando sul lavoro, perché così facendo si tagliano i servizi, la qualità e le garanzie per i cittadini”.

L’imperativo, per l’esperto di sanità, è “ridare complessità al lavoro. Far tornare ad essere i professionisti della sanità i mediatori tra il paziente e il percorso di cura. I mediatori tra i problemi etici e quelli economici, tra i diritti e le risorse”. Per realizzare questo, occorre però anche “ridare ai professionisti della sanità l’autonomia di scegliere cosa serve e cosa non serve al paziente. Una scelta che oggi troppe volte è fatta da altri, con l’unico obiettivo del contenimento dei costi”. Con il paradosso, peraltro, che “il paradigma di oggi porta alla medicina difensiva, che ha costi altissimi e non porta alcun beneficio ai pazienti”.

Cambiare paradigma della sanità significa allora anche ricordare che la medicina “è scelta. E la scelta è il modo in cui il professionista può governare la complessità del malato e, insieme a questo, può governare il sistema. L’operatore dei miei sogni non è più il ‘competiere’ a cui è stata relegato il professionista oggi. Ma è l’autore autonomo e responsabile. Che deve però anche rispondere delle sue azioni attraverso la valutazione degli esiti”. Prevedendo, per questo, la possibilità di una “doppia retribuzione: quella mensile e quella di risultato, rispetto agli esiti, da erogare a fine anno”. Una valutazione che, però, non deve svilire i professionisti, ma anzi, premiarli riconoscendo loro il contributo dato al sistema. Senza, però, cadere nell’errore di “considerare gli operatori solo dei provider”. Ricostruire la complessità dei professionisti significa, infatti, ha ribadito Cavicchi, affidargli la presa in carico del paziente in tutta la sua complessità. “Ricristianizzare la sanità – ha affermato l’esperto prendendo in prestito le parole citate il giorno precedente dall’arcivescovo di Bologna, cardinale Carlo Caffarra –, cioè reintrodurre come parte fondamentale del processo anche la relazione ed entrare in una logica di interconnessioni. Che non è solo la soluzione per il conflitto tra professionisti della sanità e pazienti, ma anche per la conflittualità tra i diversi professionisti stessi, che oggi è forte e preoccupante, e che va gestita e risolta”.

E la sanità? “Deve essere sì redditizia, ma non lucrativa”. E soprattutto, “è inutile cambiare il lavoro, se non si cambiano i modelli in cui esso opera”. Il modello di azienda “più appropriata”, secondo Cavicchi, è allora quella “a managerialità diffusa. Dove, cioè, i professionisti e gli operatori sanitari concorrono alla managerialità”. Il governo clinico, per l’esperto, “è un passo avanti, ma serve andare oltre”.

L’imperativo, dunque, è “relazione”, collaborazione e, in pratica, "rete”. E i pazienti? “Sono titolari di diritti, ma anche di doveri. Il cittadino oggi è visto come un costo, ma nessuno ha ancora pensato a che risorsa importante può essere se si responsabilizza e si educa. In termini di prevenzione, ma anche di welfare sociale”.

In fondo, secondo Cavicchi, il paradigma proposto dalla Cei non è così lontano da quello desiderato anche dai pazienti e dai professionisti. “La cultura laica e quella cattolica hanno molto terreno in comune”.

E intanto, Cavicchi guarda con preoccupazione al prossimo ottobre, che dovrebbe portare all’intesa sul nuovo Patto per la Salute. “Lo chiamano Patto per la salute, ma solitamente consiste in una riduzione dei Lea e in un aumento delle difficoltà per i professionisti e i cittadini malati”.
 

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