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Mercoledì 19 FEBBRAIO 2020
Aceti (Fnopi): "Ora basta indugi, l’Ospedale di Comunità deve partire”
Più di cinque anni di ritardo: l’ospedale di comunità era una delle prime intese da chiudere non oltre tre mesi dopo l’approvazione del Patto per la salute 2014-2016 (a ottobre 2014: articolo 5 del Patto). Altri rinvii non sono accettabili.
Eppure, è l’anello di congiunzione tra il normale ospedale (per acuti) e il territorio. È la tessera che mancava al puzzle dell’assistenza territoriale perché questa sia davvero efficiente e dalla parte dei cittadini. Ed è anche una fonte di risparmio e di migliore organizzazione per il sistema sanitario perché in grado di ridurre i ricoveri impropri e tagliare molte liste di attesa.
Già sette mesi fa Regioni e ministero della Salute avevano raggiunto l’intesa per attuarlo, ma è rimasto ancora al palo, ostaggio di una cattiva politica (di una sola Regione che ha legato le mani a tutte le altre), che per motivi del tutto estranei ai bisogni dei cittadini, all’organizzazione dei servizi sanitari e ai contenuti del documento concordato, ha bloccato un iter che ha tolto per tutto questo tempo l’opportunità di migliorare il sistema e a molti cittadini la possibilità di far fronte ai loro bisogni di salute con maggiore appropriatezza , qualità, certezza e velocità di esecuzione.
Un esempio insomma di come la buona politica, quella con la “P maiuscola” può essere ostaggio della cattiva politica, quella con la “p minuscola”, indifferente alle necessità di chi invece dovrebbe curare di più e a cui si dovrebbe rivolgere.
Ma alla fine il dado è tratto e la volontà del ministro della Salute Roberto Speranza – anche sotto il pressing della Federazione degli infermieri che lo ha scritto a chiare lettere nella sua mozione del Consiglio nazionale del 15 febbraio scorso - e con il beneplacito delle altre Regioni, ben contente di realizzare un tassello importante in più del miglior SSN del mondo, ce l’hanno fatta e il documento approda alla Stato-Regioni del 20 febbraio.
Ovviamente è necessario che le Regioni virtuose facciano muro contro altri eventuali colpi di mano, irresponsabili, che potrebbero richiudere il cassetto che contiene l’intesa e con il ministro diano il via libera a un’ulteriore innovazione che va verso il miglioramento dei servizi, l’equità del sistema (perché gli ospedali di comunità sono sul territorio e riavvicinano il SSN alle case delle persone, oltre che dare risposte anche nelle aree interne e più disagiate del paese) e perfino un risparmio virtuoso che consentirebbe di trovare risorse da reinvestire in altri aspetti dell’assistenza per rafforzare sempre più il nostro SSN.
L’obiettivo che il patto dava all’ospedale di comunità era (ed è) quello di ridurre i ricoveri inappropriati e di accelerare e facilitare i percorsi di deospedalizzazione, garantendo una risposta omogenea assistenziale territoriale in tutto il territorio nazionale.
I dati parlano chiaro. In Italia nel 2018, secondo le ultime Schede di dimissione ospedaliera, ci sono ancora 2.067.199 ricoveri a rischio di inappropriatezza, quelli cioè che non dovrebbero arrivare nel letto di un ospedale per essere assistiti e la cui tipologia è stata ben definita nei livelli essenziali di assistenza, ma che per ora non hanno altra via se non quella di un ricovero.
E i loro costi “teorici” (perché stimati dal ministero della Salute sulla base del tariffario nazionale e non secondo singoli, eventuali, tariffari regionali) sono di ben 2.625.372.871, circa l’11% del costo complessivo dei ricoveri (23.739.073.330 per quelli ordinari).
A questi potrebbero aggiungersi 821.963 ricoveri ripetuti (in regime ordinario e per acuti), che si manifestano il più delle volte quando il primo ricovero non ha avuto un buon livello di qualità di cura o, appunto, è stato inappropriato.
I ricoveri a rischio di inappropriatezza sono quelli che più di qualunque altro potrebbero essere assistiti negli Ospedali di comunità essendo questi un mix positivo tra attività di ricovero, appunto, e assistenza sul territorio.
E non solo con un evidente benefico per il sistema – che guadagnerebbe appropriatezza e spenderebbe meno - e per i cittadini, i quali non sarebbero più costretti all’ospedale, ma potrebbero utilizzare queste strutture che per tipologia, gestione e dislocazione sul territorio rappresentano una scelta di eccellenza dal punto di vista clinico e consentono una maggiore compliance permettendo a chi ha bisogno di restare vicino casa anche quando l’assistenza sul territorio è carente.
La responsabilità gestionale-organizzativa complessiva sarà assegnata a una figura individuata anche tra le professioni sanitarie dall’articolazione territoriale aziendale di riferimento. Il suo compito sarà di svolgere anche una funzione di collegamento con i responsabili sanitari, clinici e assistenziali, e la direzione aziendale. Una posizione cosiddetta “contendibile” che dimostra il principio di assoluta multidisciplinarietà fatto proprio da ministero e Regioni.
La responsabilità assistenziale spetta all’infermiere secondo le proprie competenze. E l’assistenza/sorveglianza sanitaria è infermieristica ed è garantita nelle 24 ore.
La responsabilità clinica invece è di un medico di medicina generale (pediatra di libera scelta se l’ospedale è pediatrico) oppure di un medico dipendente e le attività di coordinamento sono assicurate da un infermiere con funzioni di coordinamento per i moduli (uno e due) previsti per l’ospedale di comunità.
È un modello quindi che vede un ruolo importante della gestione infermieristica che se applicato sul territorio anche per altri meccanismi assistenziali (come ad esempio l’infermiere di famiglia e di comunità) rende più immediata la risposta ai bisogni di salute dei pazienti e garantisce continuità tra territorio e ospedale che consentono cure sempre appropriate e accorciano sensibilmente anche le liste di attesa.
Tonino Aceti
Portavoce Federazione nazionale Ordini delle professioni infermieristiche
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