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ASCO 2019. Microbioma intestinale: ecco come influenza la risposta alla terapia anti-tumorale

di Maria Rita Montebelli

Una delle maggiori esperte nel campo, la francese Laurence Zitvogel, presente all’ASCO, fa una panoramica sullo stato dell’arte delle ricerche sul rapporto tra batteri intestinali, cancro e risposta alla terapia anti-tumorale. Una relazione delicata che può fare la differenza tra lo stato di salute e la comparsa di un tumore, tra il successo o il fallimento della terapia, con immunoterapici innanzitutto ma anche con gli altri trattamenti tradizionali come la chemioterapia. Allo studio anche una serie di tentativi di ‘manipolazione’ del microbioma intestinale per migliorare la risposta alle terapie anti-cancro.

01 GIU - I batteri ‘residenti’ nel nostro intestino possono esercitare una profonda influenza sul sistema immunitario e sulla possibilità di tenere a bada le cellule tumorali. Ma non solo. Alcuni batteri del microbioma intestinale possono purtroppo anche promuovere dei processi di tumorigenesi. Insomma appare sempre più importante, nel bene o nel male, fare i conti che i nostri ‘commensali’.
 
“I batteri intestinali – spiega Laurence Zitvogel, professore di immunologia e biologia all’Università di Parigi e direttore scientifico del dipartimento di immuno-oncologia al Gustav-Roussy a Villejuif (Francia) – possono promuovere la tumorigenesi attraverso una serie di meccanismi, dalla produzione di tossine, all’induzione di infiammazione o determinando immunosoppressione. Tutto ciò può danneggiare il DNA e ostacolare la capacità rigenerativa dell’epitelio del colon, mentre l’infiammazione può promuovere la carcinogenesi.”
 
E nel caso dei tumori gastro-intestinali, ci fanno ormai anche i nomi di alcuni ‘colpevoli’, in grado di indurre queste alterazioni: Escherichia coliFusobacterium nucleatum e naturalmente Helicobacter pylori. Più di recente, la ricerca si è focalizzata sul ruolo del microbioma nell’ostacolare la risposta all’immunoterapia.
“La disbiosi intestinale – prosegue la professoressa Zitvogel – è sempre più spesso additata come causa di resistenza primaria al trattamento con anti CTLA-4 e PD-1, che può presentarsi fin nel 70% dei pazienti. Sappiamo inoltre che anche la risposta a chemioterapia, CAR-T e immunoterapia (la risposta alla quale  dipende dalle cellule T) è influenzata da una serie di fattori dell’ospite, compreso il microbioma”.
 
Ecco come i batteri intestinali mettono i bastoni tra le ruote alle terapie anti-tumorale
La ricerca si sta dunque concentrando sui meccanismi alla base di queste interferenze che inficiano la risposta alla terapia.
 
Alcuni batteri hanno la capacità di attivare le cellule dendritiche a livello locale e a distanza; così promuovono l’attivazione e la proliferazione delle cellule T. A loro volta, le cellule T svolgono un ruolo importante nel ‘riprogrammare’ il microambiente tumorale (i Bifidobatteri ad esempio possono riprogrammare le cellule dendritiche attraverso una via di segnale IFNR tipo 1 che produce una maggior risposta al blocco di PD-1). Alcuni enterococchi invece possono influenzare direttamente i T-helper 17 patogeni e indurli a migrare verso il tumore poiché esprimono recettori per le chemochine appropriati. In questo modo, questi batteri aumentano il pool delle T helper, che riprogrammano il microambiente tumorale.
 
Altre ricerche hanno dimostrato che i Bacteroides fragilis e delle specie thetaiotamicron sono fondamentali per la risposta agli anticorpi anti-CTLA-4 e in un uno studio su modello murino di melanoma, il trapianto di microbioma intestinale umano, ha determinato una migliore risposta al trattamento con anti-CTLA-4.
 
Un altro studio condotto dal gruppo della Zitvogel su oltre 300 pazienti, ha dimostrato che la terapia antibiotica riduce l’efficacia degli anti-PD-1, perché distrugge una parte del microbioma intestinale. Due pattern particolari della composizione del microbioma intestinale, risultano associati alla risposta o alla resistenza al trattamento con anti-PD-1. Infine, un altro esperimento del gruppo francese ha dimostrato che il trapianto di microbioma intestinale proveniente da un paziente che non aveva risposto all’immunoterapia è in grado di conferire resistenza al trattamento con anti-PD-1, mentre al contrario, il trapianto da donatore che aveva risposto all’immunoterapia, aumenta la possibilità di risposta a questi farmaci nel topo.
 
Le strade future per potenziare la risposta alla terapia, modulando il microbioma
Tutti questi studi indicano la strada da percorrere in futuro. “Prima di iniziare un trattamento con un immunoterapico  – afferma la ricercatrice francese – potrebbe essere necessario testare la composizione del microbioma e, in caso di disbiosi, correggerla con trapianto di microbioma; sono in corso anche ricerche mirate allo sviluppo di ‘capsule’ contenenti materiale fecale da donare sano liofilizzato e purificato e altre riguardanti  la supplementazione di probiotici per via orale, allo scopo di aumentare le possibilità di risposta all’immunoterapia. Un’altra linea di ricerca mira alla creazione del ‘probiotico perfetto’, un mini-ecosistama in capsula di commensali immunogeni, da somministrare prima di iniziare l’immunoterapia.
Infine, il microbioma intestinale potrebbe essere modulato anche attraverso interventi dietetici, come la somministrazione di prebiotici.
 
La prudenza è d’obbligo
Naturalmente è ancora presto per poter stilare delle raccomandazioni al riguardo e la Zitvogel mette in guardia dal seguire chi fa fughe in avanti, senza muoversi di un terreno di solide evidenze. “Tutti questi interventi devono ancora essere testati attraverso studi clinici su pazienti con tumore. Sono tuttavia molto ottimista e ritengo che dagli studi in questo campo potranno venire indicazioni importanti per l’intero campo dell’oncologia”.
 
Maria Rita Montebelli

01 giugno 2019
© Riproduzione riservata

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