È quanto emerge da uno studio tedesco che ha valutato oltre 100 pazienti di età compresa tra i 18 e i 60 anni.
“Per molto tempo si è pensato che il trauma infantile fosse un importante fattore di rischio per lo sviluppo della depressione e che fosse associato a cambiamenti nel cervello – ricorda l’autore, Nils Opel dell’Università di Münster – Quello che abbiamo fatto è stato mostrare che effettivamente le alterazioni nel cervello sono direttamente collegate al risultato clinico. Questa è la novità”.
Lo studio
Lo studio osservazionale di due anni ha visto coinvolti 110 pazienti di età compresa tra i 18 e i 60 anni, che sono stati ricoverati in ospedale a seguito di una diagnosi di depressione maggiore.
All’inizio, tutti i partecipanti sono stati sottoposti a risonanza magnetica del cervello e hanno risposto a un questionario che ha valutato il livello di maltrattamento vissuto da bambini.Nei due anni successivi, oltre due terzi dei partecipanti ha avuto una ricaduta.
Le scansioni del cervello hanno mostrato che l’abuso durante l’infanzia e la depressione ricorrente erano collegati a riduzioni simili nella superficie della corteccia insulare, una parte del cervello che si ritiene contribuisca a regolare le emozioni e l’auto-consapevolezza.
“Penso che l’implicazione più importante del nostro studio sia che possiamo dimostrare che i pazienti traumatizzati differiscono da quelli non traumatizzati in un modo che li espone a un maggior rischio di depressione ricorrente. I pazienti traumatizzati differiscono inoltre in termini di struttura cerebrale e neurobiologia”, aggiunge Opel.
I commenti
“In questo momento c’è un grande interesse per la plasticità del cervello, cioè la possibilità per le cellule cerebrali di rigenerarsi o modificarsi per soddisfare i bisogni del cervello – ha ricordato Zwi, non coinvolto nello studio – Questo è il motivo per cui è importante sapere se i cambiamenti osservati in associazione a trauma e depressione sono transitori o permanenti, cosa che questo studio non può mostrare”.
Secondo Zwi terapia o farmaci che intervengono sulle modifiche alla struttura del cervello potrebbero dare qualche chance a questi pazienti. Opel vede anche del potenziale nel trattamento su misura per i singoli pazienti sulla base delle informazioni ottenute dalle scansioni cerebrali.
“Sarebbe fantastico se in futuro potessimo utilizzare questi dati per prevedere quale paziente potrebbe aver bisogno di cure intensive o specializzate e poi proporre approcci terapeutici personalizzati”, ha concluso.
Fonte: The Lancet Psychiatry
Tamara Mathias
(Versione italiana Quotidiano Sanità/Popular Science)
18 aprile 2019
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