Sclerosi multipla. Ocrelizumab si conferma una terapia efficace nella forma progressiva primaria
di Maria Rita Montebelli
Pubblicati sul New England Journal of Medicine i risultati dello studio ORATORIO che dimostra l’efficacia di ocrelizumab, un anticorpo monoclonale anti CD20, completamente umanizzato nella forma progressiva primaria della sclerosi multipla. Ed è la prima volta che un farmaco al vaglio di uno studio di fase III dimostra la sua efficacia su questa forma della malattia
22 DIC - E’ una pietra miliare nel campo degli studi sulla sclerosi multipla, ma anche e soprattutto un bel regalo di Natale per i pazienti affetti dalla forma progressiva primaria della sclerosi multipla. Si chiama
ORATORIO ed è il primo studio di fase III ad aver dimostrato che un trattamento è in grado di rallentare la progressione della disabilità in questa forma di sclerosi multipla. Un risultato storico insomma.
Uno studio che fa crollare anche un altro muro, relativo al mistero dell’ezio-patogenesi di questa patologia, dimostrando inequivocabilmente che, accanto alle cellule T, anche le B hanno un preciso ruolo nella patogenesi della sclerosi multipla. Ridurre il numero e la funzione delle cellule B CD20+ ha infatti evidenti effetti benefici sul decorso di questa malattia auto-immune.
La sclerosi multipla è una malattia autoimmune che ha come
target alcuni antigeni del sistema nervoso centrale; l’attacco delle cellule immunitarie porta a demielinizzazione, ad attivazione delle cellule gliali e alla conseguente perdita di neuroni e di assoni. I risvolti clinici di questo danno scatenato dal ‘fuoco amico’ sono quelli di una disabilità progressiva. Tre sono le forme più comuni di sclerosi multipla: la forma recidivante-remittente, nella quale i pazienti recuperano del tutto o in parte il danno neurologico provocato da un attacco; la forma secondaria progressiva nella quale i pazienti manifestano invece una disabilità progressiva tra un attacco e l’altro. Infine la forma primaria progressiva , caratterizzata da una progressione continua della disabilità dal momento della comparsa della malattia. Quest’ultima forma è considerata più neurodegenerativa che infiammatoria e fino a poco tempo fa era orfana di qualsiasi trattamento.
Gli ultimi dieci anni sono stati caratterizzati da una vera rivoluzione nel trattamento della sclerosi multipla, grazie all’arrivo di tante molecole innovative, che hanno la capacità di ridurre il numero delle recidive, l’accumulo delle lesioni evidenziate alla risonanza magnetica e di rallentare la progressione della disabilità. Terapie efficaci però quasi solo per le forme recidivanti della malattia.
Molte di queste molecole inoltre hanno come
target le cellule T, anche se alcune hanno un qualche effetto anche sulle cellule B. Queste ultime sono state un ‘
target’ di trattamento più recente, anche se era noto da tempo che, esattamente come i linfociti T, anche le cellule B migrassero dal sangue periferico all’interno del sistema nervoso centrale, dando segno della loro presenza attraverso le immunoglobuline rilevabili nel liquor.
Un primo tentativo di colpire anche questi protagonisti del danno autoimmune della sclerosi multipla è stato inizialmente fatto con il rituximab, un anticorpo monoclonale anti-CD20. Il farmaco ha dimostrato di poter ridurre il numero delle recidive e delle lesioni evidenziabili alla risonanza magnetica nei soggetti affetti dalla forma recidivante-remittente. Purtroppo gli effetti del rituximab sono risultati deludenti nella forma progressiva primaria, con poche eccezioni.
Ma anche questo
gap terapeutico si sta chiudendo, con l’arrivo di nuove armi terapeutiche contro la sclerosi multipla, in tutte le sue forme, come dimostrano i risultati degli studi pubblicati oggi sul
New England Journal of Medicine. Tre trial di fase 3 hanno valutato gli effetti dell’ocrelizumab, un nuovo anticorpo monoclonale anti-CD20 completamente umanizzato; due di questi (
OPERA I e OPERA II, primo nome
Stephen L. Hauser) su pazienti affetti con la forma recidivante di sclerosi multipla e uno (ORATORIO, primo nome
Xavier Montaban) sulla forma progressiva primaria.
I trial ‘gemelli’ OPERA I e II hanno valutato gli effetti di ocrelizumab (600 mg ogni 24 settimane) contro quelli dell’interferon beta-1b (44 mcg tre volte a settimana per 96 settimane). In entrambi gli studi ocrelizumab ha primeggiato rispetto al farmaco di confronto sull’
endpoint primario, rappresentato dal tasso di recidive annuali, che sono risultate ridotte del 46 e del 47% rispetto all’interferon beta-1b. Nettamente ridotta con ocrelizumab anche la percentuale di soggetti con progressione di disabilità e il numero di lesioni evidenziabili alla risonanza magnetica.
“Ocrelizumab è il primo farmaco sperimentale che in un ampio studio di fase III ha dimostrato di ridurre significativamente la progressione della disabilità fisica nella sclerosi multipla primariamente progressiva. Nell’ultima decade -ricorda Xavier Montalban, direttore dello Scientific Steering Committee dello studio ORATORIO e Professore di Neurologia e Neuroimmunologia presso la Vall d’Hebron University Hospital, Research Institute and Cemcat, Barcellona, Spagna - altre molecole hanno provato, fallendo, a dimostrare efficacia nella SMPP, di conseguenza i risultati positivi di ocrelizumab segnano un importante passo avanti nella comprensione di questa forma altamente debilitante della malattia”.
Molto interessanti anche i risultati dello studio ORATORIO, condotti sulla forma progressiva primaria, orfana fino a poco tempo fa di terapie. In questo studio, ocrelizumab (600 mg ogni 24 settimane per almeno 120 settimane) ha ridotto del 25% il rischio relativo di progressione della disabilità, rispetto al gruppo di controllo (placebo). L’anticorpo anti-CD20 ha anche ridotto il volume totale delle lesioni cerebrali, che nel gruppo placebo sono andate invece aumentando di volume nel tempo. “E’ una pietra miliare tra gli studi del campo”, ha commentato l’
editorialista Peter A. Calabresi, Dipartimento di Neurologia della Johns Hopkins University School of Medicine, Baltimora (USA).
“Queste pubblicazioni che evidenziano il ruolo centrale delle cellule B nella sclerosi multipla - afferma Stephen Hauser, direttore dello
Scientific Steering Committee degli studi OPERA, direttore del Weill Institute for Neurosciences e direttore del Dipartimento di Neurologia presso la University of California, San Francisco - sono il risultato di una collaborazione di lunga data tra la comunità scientifica e l’industria a beneficio delle persone con SM. Negli studi OPERA I e OPERA II nella SMR, ocrelizumab ha dimostrato di ridurre in modo costante e significativo l’attività di malattia e la progressione della disabilità rispetto a un’alta dose di interferone, considerato lo standard-of-care, dimostrando allo stesso tempo un profilo di sicurezza favorevole. L’uniformità di questi dati pionieristici, l’effetto osservato negli studi e il favorevole profilo di sicurezza possono supportare il trattamento anticipato della sclerosi multipla con una terapia ad alta efficacia, in grado di modificare la patologia”.
Resta ancora da capire fino in fondo come mai colpire del cellule B permetta di ottenere questi risultati, ma i meccanismi potrebbero essere molteplici. In particolare l’editorialista mette in evidenza il ruolo di presentazione dell’antigene svolto dalle cellule B che potrebbe essere molto importante nella patogenesi della sclerosi multipla.
Gli studi sul rituximab hanno dimostrato che questa strategia terapeutica produce una rapida riduzione della secrezione di alcune citochine infiammatorie (interferon gamma e interleuchina-17) da parte delle cellule T e che questo si accompagna ad una rapida riduzione delle lesioni cerebrali alla risonanza magnetica con gadolinio.
Le cellule B sono inoltre un serbatoio per il virus di Epstein Barr, che si sospetta essere implicato nella patogenesi della sclerosi multipla per la notevole somiglianza di alcune sue sequenza peptidiche con la proteina basica della mielina. “A livello speculativo si potrebbe dunque pensare – afferma l’editorialista – che la deplezione delle cellule B, eliminando il reservoir del virus, andrebbe a ridurre anche l’autoreattività”. Ma questo è ancora tutto da dimostrare.
Sul fronte degli effetti collaterali, come nel caso di tutte le terapie di questo tipo, vanno tenuti d’occhio quelli relativi all’immuno-soppressione che espone il paziente ad un maggior rischio di infezioni (ma non alla temutissima leucoencefalopatia multifocale da virus JC osservata in passato con altre terapie per la sclerosi multipla) e di neoplasie (soprattutto cancro della mammella). Effetti indesiderati che meritano un attento monitoraggio nel tempo.
Maria Rita Montebelli
22 dicembre 2016
© Riproduzione riservata
Altri articoli in Scienza e Farmaci