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Speciale Asco. Immunoterapia: l’unione fa la forza e in maniera duratura

di Maria Rita Montebelli

L’azione dell’immunoterapia, nei pazienti con melanoma metastatico, si conferma molto efficace e soprattutto duratura nel tempo. E per molti di loro si comincia a parlare di guarigione da una malattia che, prima di questi farmaci, si associava ad una sopravvivenza media di appena 2 mesi. Il futuro va verso le associazioni di più immunoterapici.

03 GIU - Presentati all’ASCO di risultati del follow up a due anni dello studio di fase Ib sull’associazione ipilimumab-nivolumab nel melanoma in fase avanzato; i dati ad un anno erano stati presentati nel corso della precedente edizione dell’Asco e pubblicati nel 2013 sul New England Journal of Medicine. Il follow up a due anni rivela un tasso di sopravvivenza dell’88% (ad un anno era del 94%), a conferma della durabilità dell’azione anti-tumorale; l’associazione dei due immunoterapici, si è dimostrata inoltre efficace in qualunque tipologia di pazienti, indipendentemente dallo status mutazionale BRAF e dall’espressione del PD-1 sulla superficie cellulare. “Si conferma il dato interessante dell’utilità di associare due ‘freni’ diversi, ipilimumab e nivolumab – afferma professor Paolo Ascierto, Direttore Unità melanoma, immunoterapia oncologica e terapie innovative dell’Istituto Tumori di Napoli - I pazienti con melanoma metastatico, storicamente morivano dopo due mesi; con l’ipilimumab sappiamo oggi di poter guarire il 20% dei pazienti, perché disponiamo ormai di dati a 10 anni (e il dato a 3 anni era di una sopravvivenza del 25%). Questa combinazione adesso ci offre una sopravvivenza a due anni dell’88% che, se confermata dai dati dello studio di fase III, rivoluzionerà ancora di più la terapia di questo tumore”.
 
L’ipilimumab è disponibile in Italia da aprile 2013, presso Centri di riferimento, individuati dalle Regioni.

“Mai come in questa edizione Asco - commenta il professor Ascierto -l’immunoterapia è protagonista della scena. Il melanoma ha fatto scuola, ma da questo ci si è mossi verso altre patologie tumorali; il tumore del polmone non a piccole cellule (NSCLC) sarà la prossima frontiera. Sono numerose le comunicazioni a questo congresso, che dimostrano come l’immunoterapia, in combinazione con la chemioterapia, migliori la sopravvivenza. Il futuro sarà degli anti-PD-1 e anti-PDL-1, altri farmaci che ‘rimuovono i freni inibitori’ del sistema immunitario”. Il sistema immunitario ha dei meccanismi di regolazione che danno un’inibizione del segnale per evitare un’eccessiva attivazione del sistema immunitario; il tumore si ‘appropria’ di questi meccanismi e aumenta, proprio per sfuggire al sistema immunitario, l’espressione sulla superficie cellulare del PD-1; questo va ad innescare il meccanismo di ‘freno’ e blocca la risposta del sistema immunitario contro il tumore.

“Si è visto – spiega il prof. Ascierto - che, chi esprime sulla superficie del tumore il PD-1, risponde meglio a queste terapie; ma il 20% dei pazienti che non esprimono il PD-1, rispondono comunque al trattamento. Quindi, utilizzare questo meccanismo per selezionare i pazienti da trattare, potrebbe portare a farne perdere una parte, che potrebbe invece trarre beneficio dal trattamento. Viceversa, solo il 50-60% di quelli che esprimono il PD-1, rispondono alla terapia. Ad influenzare la presenza del PD-1, contribuiscono inoltre vari fattori, tra cui il timing della biopsia (l’espressione del PD-1 è dinamica, non costante) e la topografia (il PD-1 è espresso dalle cellule tumorali a ‘palizzata’ contro le cellule del sistema immunitario; è cioè più presente sugli strati esterni, che non al centro del tumore). L’espressione del PD-1 può essere inoltre aumentata dalla presenza di altri fattori (es. l’interferon gamma), ed essere quindi indice di attivazione del sistema immunitario. Il PD-1 si trova espresso anche sulla superficie delle cellule immunitarie, per un meccanismo di ‘exhaustion’, che caratterizza i linfociti ‘stanchi’ e non più funzionanti”.

Gli effetti indesiderati di queste terapie sono correlabili all’iperreattività del sistema immunitario; si va dalle malattie endocrine (tiroidite, ipofisite), alla colite, all’epatite di natura immunologica. Non si tratta comunque reazioni auto-immuni, perché quelle sono caratterizzate dal fatto che il sistema immunitario non riconosce più come ‘self’ alcune parti dell’organismo. L’impatto degli effetti collaterali di queste nuove categorie di farmaci (anti-PD1 e anti –PDL1) è inoltre decisamente inferiore a quello dell’ipilimumab.

“Per il nivolumab (anti-PD1) – anticipa il prof. Ascierto - sono attesi a breve i dati della fase III per il melanoma; seguiranno quelli sul NSCLC e sul rene. La combinazione ipilimumab-anti-PD1 è invece allo studio su tumore della mammella triplo negativo, stomaco, pancreas, polmone, tumori testa-collo e vescica. Tra le strategie future, sono al vaglio di studi di fase I e II tutta una serie di nuove molecole, dirette contro altri ‘freni’ del sistema immunitario (es. l’anti-LAG3, l’anti-KYR e l’anti-TIM3); altre mirano invece a ‘premere sull’acceleratore’ dell’immunità (es. anti-CD137, anti-CD40, anti-OX40); allo studio infine anche varie citochine, quali l’IL-21.”

Maria Rita Montebelli

03 giugno 2014
© Riproduzione riservata

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