Dopo i morti che hanno portato la nazione a celebrare uno dei più difficili lutti della sua storia, trovo veramente preoccupante e per molti versi disgustoso il conflitto politico che si sta generando intorno a due problemi che stanno mettendo in forse l'opportunità di rendere l'organizzazione sanitaria finalmente degna di questo nome. Il primo riguarda le «incompatibilità ideologiche» che si stanno manifestando intorno al quasi contemporaneo godimento dei 37 miliardi del Mes con i 209 del Recovery Fund, dei quali 81,4 a fondo perduto. Il secondo afferisce alle chiacchiere, molte delle quali inopportune, che si stanno generando sul cosa fare delle risorse europee.
La politica ha il compito (l'unico) di costruire
Veniamo alle (molto) incomprensibili paure manifestate dal M5S che, se da una parte, avverte la necessità di risistemare la sanità, dall'altra, di supporre che il ricorso al Mes sia da considerare «un patto con il diavolo». Ciò nonostante il movimento conti nelle proprie fila Di Maio e altri numerosi leader che ben dovrebbero conoscere e tutelare le condizioni di precarietà delle loro regioni meridionali di provenienza. Ma si sa, il M5S non ha ben conto di cosa sia l'organizzazione della salute nel nostro Paese e di cosa si debba fare per migliorarla. Tutt'altro. Basta vedere cosa ha combinato la già ministra Grillo in Calabria ove con il suo decreto c.d. Salva-Calabria ha ivi prodotto una strage degli innocenti, con tanti cittadini che non sanno più che pesci prendere per godere del minimo di assistenza per non morire, forse. Una scelta di allora favorita tutt'oggi dal ministro Speranza che ne consente (incomprensibilmente) la continuazione.
Ma cosa si aspetta a spendere (bene) le risorse europee?
A proposito, non c'è da perdere un attimo a mettere in cassa i 37 miliardi del Mes con la certezza, però, di saperli spendere. Una condizione sulla quale c'è tanto da confrontarsi assicurando, tuttavia, il massimo della celerità che, al riguardo, è imprescindibile. L'assistenza territoriale è l'obiettivo su cui concentrare il maggiore impegno riformatore, attese anche le eccessive difficoltà economiche necessarie per ricostruirne la sua materiale esistenza strutturale.
Ciò in quanto, per renderla così come si dovrebbe, sarebbe necessario incentrarla, ma concretamente, su una rete di professionisti che costituiscano (finalmente) un tutt'uno con l'utenza, del tipo come assicuravano le vecchie condotte, alla quale dovere altresì garantire il ricorso ad una rete di strutture intermedie alternative al ricovero (che possono chiamarsi come si vuole, purché garanti delle diagnostiche e delle specialistiche di maggiore istanza). E ancora. Una rete assistenziale pubblica che lavori in stretta sinergia con una efficiente organizzazione stabilmente dedita alla prevenzione, anche veterinaria, e alla tutela degli ambienti di vita e di lavoro.
Occorre una politica unitariamente forte
Il pericolo incombente che si legge nelle proposte che si sentono in giro è rappresentato dal glissare sulla riforma che dovrebbe, invece, essere di maggiore rilievo in tal senso, solo che si voglia rendere l'organizzazione della salute più corrispondente alle esigenze salutari collettive. Essa dovrebbe riguardare la riscrittura della «medicina di famiglia» che, con il passare del tempo, è diventata sempre più distante dal bisogno quotidiano delle persone.
Tante, troppe le cessioni della politica, rappresentata nei diversi governi che hanno succeduto alla riforma del 1978 introduttiva del Ssn, del proprio potere contrattuale nei confronti delle «corporazioni» dei medici di medicina generale e per i pediatri di libera scelta. Gli unici a godere di un rapporto parasubordinato con una retribuzione «vuoto per pieno», nel senso di essere «stipendiato» in relazione alle scelte dei cittadini indipendentemente dall'impegno di assistenza diretta che i medesimi dedicano loro.
Ogni aggiornamento contrattuale della convezione regolatrice del loro rapporto di lavoro ha dato prova di un assurdo reiterato cedimento della parte pubblica, sia in riferimento alla parte retributiva che di quella degli impieghi/doveri cui sottoporli. Tutto questo è accaduto perché tutta la politica, quella routinariamente dominante e quella di opposizione ma accomodante sul tema, si è dimostrata seriamente interessata a non scontentare la categoria, considerata la sua formidabile collaborazione a 360° nella produzione del consenso elettorale indotto, spesso ottenuto con la diretta candidatura dei medesimi.
Basta con i figli e i figliastri
Da qui una serie di benefit economici, anche consistenti, associati alle novellate configurazione di medicina di gruppo che - indipendentemente se definiti nuclei di assistenza primaria, Aft e Uccp - non hanno registrato la necessaria collaborazione realizzativa sia dalla parte pubblica che dai diretti interessati. Ciò a fronte degli ospedalieri eroi, che hanno rimediato all'irrimediabile nella battaglia contro il coronavirus, lasciati da sempre ad elemosinare una migliore busta paga.
Togliamo il freno e acceleriamo
Con la non più rinviabile cura che necessita assicurare alla rifondazione dell'assistenza territoriale, al lordo di quella integrativa domiciliare, si rende indispensabile che ad esse vada riservato il ruolo prioritario nella destinazione delle risorse Mes. Un passo difficile ma necessario che sottragga l'attuale generale disagio alla collettività lasciata troppo spesso priva dell'assistenza che le è più congeniale perché soddisfacente dei loro fabbisogni di salute.
Va quindi, approfittando della necessità di dovere realizzare, attraverso il Mes, una diversa e più efficiente offerta di assistenza primaria, concretizzando una profonda revisione del sistema in essere. Il passaggio dalla retribuzione forfettaria a quello della notula, intendendo per tale quella tipo in uso con le vecchie mutue, ovvero alternativamente dall'attuale rapporto parasubordinato e al ruolo della dipendenza pubblica potrebbero darebbero una grande mano nel ripristino delle condizioni assistenziali più dignitose.
Intorno ad esse converrebbe sviluppare le soluzioni da offrire ad una comunità nazionale che nel periodo della pandemia e in quello che le sta succedendo ha seriamente sofferto di solitudine.
Ettore Jorio
Università della Calabria