A volte, su questo giornale, capitano giorni, in cui, gli articoli più diversi sembrano, senza volerlo, come le tessere di un mosaico cioè come se pur casuali, fossero tutt’altro.
Uno di questi è stato il 20 maggio, quando, ricordandomi la “struttura che connette” di Gregory Bateson, mi sono chiesto: quale “struttura connette” le preoccupazioni di
Filippo Palumbo in ordine ai piani operativi delle regioni, le critiche di
Carlo Palermo e di
Guido Quici sulla penalizzazione retributiva dei medici e ancora le considerazioni di
Costantino Troise e gli
infermieri di Torino sdraiati davanti al palazzo della Regione?
Il problema della capacità di spesa e della capacità progettuale
Le Regioni si ritrovano, grazie alla pandemia, un mucchio di soldi per la sanità, ma senza possedere nessuna comprovata capacità di spesa, intendendo per capacità di spesa, il rapporto tra lo stanziamento di una massa spendibile di risorse e la capacità progettuale a rispondere adeguatamente alle sfide aperte dalla pandemia con scelte non solo finanziarie ma anche in qualche modo di riorganizzazione, dello stato delle cose.
Anch’io, come Filippo Palumbo, ritengo un errore politico, aggiungo, soprattutto da parte di Speranza che evidentemente conosce poco i limiti di fondo delle regioni, sottoporre i loro “piani operativi” a posteriori alla verifica del governo confidando su “una costante e leale collaborazione tra livello nazionale e livello regionale”.
Filippo Palumbo, con garbo, come è suo costume, molto pudicamente propone che, per lo meno, vi sia un affiancamento tra il ministero e le sue agenzie e le regioni evidentemente convinto che le capacità del primo aiutino, in qualche modo, le seconde. Ed io sono d’accordo con lui. Ma considerando la posta in gioco, soprattutto la delicatezza della fase 2, l’affiancamento sarebbe utile solo se da parte del ministero ci fosse, non dico un progetto di riforma, ma almeno una idea di riorganizzazione, che però non esiste, almeno a giudicare dalle scelte fatte un po a spot proprio con il “decreto rilancio”.
Assegnare tout court, ad esempio, 20.000 infermieri ai distretti pensando ad una generica assistenza domiciliare per me non ha molto senso e per dirla tutta mi è difficile non pensare ad una marchetta. Assegnare degli operatori ad un vero progetto integrato di cura e di assistenza nei luoghi di vita delle persone anche ripensando il distretto come di recente ha scritto il presidente di Card
Gennaro Volpe e i suoi rapporti soprattutto con la medicina generale e la specialistica ambulatoriale, è un altro paio di maniche.
Attività, cioè lavoro
Il problema sollevato da Filippo Palumbo per me “è” il problema. Se guardate bene i due riquadri con i quali Palumbo elenca puntigliosamente tutte le cose che secondo il decreto rilancio si dovrebbero fare a livello sanitario, vi accorgerete che a parte poche cose di carattere gestionale e informazionale, alla fine si tratta di riorganizzare, sviluppare, implementare soprattutto delle “attività” professionali cioè di ripensare a come organizzare il lavoro, il che vuol dire che nella fase 2 il controllo dei nuovi focolai, le cure tempestive, i trattamenti ospedalieri, dipenderanno prima di tutto da come sarà ripensato il lavoro professionale che c’è.
Temo che proprio sul lavoro le regioni improvviseranno, c’è il rischio di usare i soldi per fini i più diversi, anche per fare operazioni clientelari. Non si deve mai dimenticare che le regioni, anche quelle considerate più avanzate, sulla questione del lavoro, sono ancora ferme alle competenze avanzate e agli incarichi di funzione, cioè hanno dimostrato più di voler contro-riformare che di voler riformare.
Patto con il lavoro, per il lavoro
Speranza, secondo me, avrebbe dovuto suggerire a Conte, rispetto alle complessità e alla delicatezza della “fase 2”, di convocare tutti i rappresentanti delle professioni sanitarie per fare con loro, un vero e proprio “patto con il lavoro, per il lavoro”, con il quale sancire a livello nazionale e, per tutte le regioni, delle linee di riorganizzazione e di ripensamento del lavoro, comuni per tutti, e che ognuno avrebbe poi ovviamente interpretato anche tenendo conto delle proprie specificità locali.
Ma davvero credete che il problema delle “attività” elencate da Palumbo quelle che io chiamo con ben altro significato politico, “prassi”, sia così specifico per ogni regione al punto da dare loro praticamente carta bianca?
Personalmente sono convinto che:
• l’implementazione del sistema di accertamento diagnostico, di monitoraggio e sorveglianza della circolazione di SARS-CoV-2 sia un problema comune a tutte le regioni,
• il piano di potenziamento e riorganizzazione della rete assistenziale, riguardi tutti,
• l’assistenza domiciliare integrata sia, a sua volta, un problema generale come pure la riorganizzazione dei dipartimenti di prevenzione nelle aziende?
Certo che esistono le specificità, ma nella “fase 2” esse, rispetto alla portata della sfida pandemica in atto, vanno invocate ma solo per perfezionare modelli condivisi. Oggi la questione vera comune a tutte le regioni, ribadendo che sanità e lavoro, sono la stessa cosa, è: quale lavoro serve per difendere il paese da un’altra epidemia? Purtroppo ne il governo ne le regioni mostrano di poter rispondere a questa domanda, del resto fatemelo dire, per esperienza, certi progetti, come si può vedere anche dalle poche proposte in circolazione, non si scrivono tanto facilmente dalla mattina alla sera.
Il ruolo, il significato, il valore del lavoro
Nel decreto rilancio quindi il lavoro, nonostante l’eccezionalità dell’epidemia, è inteso nel modo più sbagliato e retrivo, cioè in modo burocratico, cioè come i classici compiti istituzionali da assegnare, perché di competenza, alle regioni, seguendo una banale interpretazione del decentramento amministrativo, pur sapendo che le regioni, almeno molte di loro, non hanno la benché minima idea sul da farsi.
Mi fanno sorridere coloro, Speranza in testa, quando parlano di superare la logica dei silos, cioè quella logica che interviene sul sistema sanitario, disaggregandolo in monadi quindi ignorandone le connessioni e le complessità. Superare la logica dei silos significa entrare in una logica sistemica e accettare l’idea delle “infrastrutture immateriali” (piano triennale per l’informatica nella P.A 2017/2019). Quindi un altro cambio di paradigma.
E voi credete che, un cambio di paradigma del genere, le regioni, siano in grado da sole di farlo? Io no. Alle regioni dico, con il dovuto rispetto istituzionale, che non è una questione di disistima né di sfiducia ma solo la banale constatazione che voi:
• le invarianze vere non le avete mai messe in discussione perché un pensiero di riforma non ce l’avete mai avuto. Questo vale per l’Emilia Romagna per il Veneto e per la Calabria,
• ogni volta che mettete le mani sul lavoro fate casini inenarrabili come quelli della famosa
delibera del Veneto, cioè non riformate ma controriformate.
Da nessuna parte esiste, fatte salve le solite rare eccezioni, una visione sistemica del lavoro in sanità e da nessuna parte le “attività” di cui parla il decreto rilancio, sono concepite come “infrastrutture immateriali”.
Se Speranza, non ha capito, neanche con una pandemia tra capo e collo, l’importanza del lavoro e di un accordo con il mondo del lavoro, allora capisco Carlo Palermo (Anaao Assomed ) e Guido Quici (Cimo Fesmed), quando denunciano l’incredibile svalutazione che il decreto consuma a danno dalle loro professioni. Ma anche Nursind quando per protesta, per il mancato rispetto degli accordi, i suoi iscritti, a Torino, si sdraiano davanti al palazzo della Regione.
Da parte del governo “non capire” vale come “svalutare” o meglio restare dentro vecchie logiche burocratiche (la distribuzione a pioggia, l’assegnazione indistinta di risorse di cui parla Palermo). Certo che tutte le professioni hanno lavorato duro contro un nemico comune ma con lavori diversi, con impegni diversi, con responsabilità diverse, con rischi diversi. Negare le differenze che sono nella realtà mi fa rivenire in mente la stagione degli appiattimenti, cioè di quei contratti, che cercavano di mettere tutte le diversità professionali nello stesso livello limitandosi a definirlo “funzionale” salvo poi vedere i cd “livelli funzionali” scoppiare come palloncini.
Qualsiasi appiattimento non è solo una ingiustizia ma è una operazione subdola che nega le diversità e magari per inseguire improbabili corporativismi con l’aggiunta di un po di ideologia. Per me le soluzioni ai problemi di premialità denunciate da Carlo Palermo sono marchette null’altro.
Se a questo aggiungiamo quello che ha denunciato Guido Quici cioè accordi fatti con alcuni e non con altri, “confronti che si trasformano in scontri”, allora, con preoccupazione, dico che il governo sta affrontando la “fase 2” non solo senza un progetto ben definito sul lavoro ma rischiando di mettere lavoratori contro lavoratori.
La cruna dell’ago
Credo che l’immagine evocata da Costantino Troise quando scrive che il lavoro è “la cruna dell’ago attraverso la quale occorre passare per qualunque progetto che voglia disegnare un nuovo mondo per la sanità italiana” sia azzeccata. Ma, a quanto pare, anche nella “fase 2” è necessario passare dentro questa cruna.
Del resto proprio la Lombardia, giustificandosi con la necessità di gestire l’epidemia, ha proposto di passare in blocco tutti medici convenzionati alla dipendenza pubblica. Proposta rilanciata dalla Cgil medici e che mi sono permesso di confutare (
QS, 18 maggio 2020).
Ma l’idea, che è solo di riclassificazione e che non ha niente di riforma, non è estranea alle altre regioni, soprattutto a quelle che sostengono il regionalismo differenziato, Emilia Romagna e Veneto in testa, che non vedono l’ora di metterli in riga rei, in questa pandemia, di aver curato i loro malati “a mani nude” e di non essere dipendenti pubblici come essi desidererebbero.
Non vorrei che con la scusa della fase 2 per ragioni di emergenza si consumassero quei colpi di mano che molti sognano da tanti anni. Vedremo.
Conclusione
Ora posso rispondere alla domanda posta all’inizio: quale struttura connette gli articoli di Palumbo, di Palermo, di Quici, di Troise e di Nursind?
In questo caso la “struttura che connette” si chiama “lavoro”, con ciò a conferma della mia vecchia tesi, sulla sua centralità politica quale condizione imprescindibile per qualsiasi cambiamento.
Guido Quici in quell’affollatissimo 20 maggio, nella sua lettera inviata a Fassari, ha sostenuto rammaricato che “l’epidemia non ha insegnato nulla alla politica”. Caro Guido temo che tu abbia ragione anche se per me sarebbe meglio dire che neanche l’epidemia ha insegnato alla politica che in sanità esiste una struttura che connette che si chiama lavoro e che, proprio perché il lavoro tutto connette, è dal lavoro che dovremmo partire per cambiare la sanità. Fase 2 compresa.
Ivan Cavicchi