Le donne con un piccolo tumore della mammella HER2 positivo in fase iniziale, potrebbero avere una sopravvivenza libera da malattia simile, ma un minor rischio di tossicità cardiaca, con un ciclo di trastuzumab in adiuvante di appena 9 settimane, rispetto alle donne trattate con lo stesso farmaco per un anno. Lo dimostra un’analisi di sottogruppo dello studio Short-HER presentato al congresso dell’ESMO in corso a Monaco di Baviera.
Le linee guida attuali raccomandano di somministrare come trattamento adiuvante il trastuzumab per 12 mesi nelle pazienti con tumore della mammella HER-2 positivo in fase precoce. Questa è l’indicazione scaturita dai risultati degli studi registrativi. Ma la comunità scientifica ha deciso di valutare se un ciclo ‘abbreviato’ di trastuzumab sia in grado di ottenere gli stessi risultati, risparmiando effetti collaterali e costi. Lo studio Short-HER ha randomizzato 1.254 pazienti con carcinoma della mammella HER2-positivo al trattamento con trastuzumab per 9 settimane o per un anno, in aggiunta alla chemioterapia. Dopo una mediana di sei anni di follow-up, il braccio ‘trattamento abbreviato’ non ha raggiunto la non-inferiorità ma è risultato associato ad una riduzione della cardiotossicità grave.
“Lo studio Short-HER, presentato qualche mese fa all’ASCO e già pubblicato – afferma il professor
Pierfranco Conte, direttore della Divisione di Oncologia Medica dell’Università di Padova - qui all’ESMO di Monaco ha presentato due altri set di dati su sottogruppi, basati su categorie classiche di rischio di ripresa di malattia (che sono la presenza di metastasi linfonodali e le dimensioni del tumore) e su una tecnica innovativa, rappresentata dalla quantificazione della percentuale di linfociti che infiltrano il tumore. Abbiamo visto che utilizzando questi parametri, sia quelli classici che quelli innovativi, è possibile individuare i gruppi delle pazienti a rischio più basso che rappresentano circa il 40-50% di tutta la popolazione in studio, nelle quali 9 settimane di trattamento sono egualmente efficaci come un anno di trattamento, con il vantaggio però di una significativa riduzione della cardiotossicità. Va sottolineato però che lo studio nel suo complesso non è stato in grado di dimostrare la non inferiorità, e dunque a mio avviso è giusto continuare a considerare ‘standard’ un anno di trattamento. Questi dati però sono importanti perché in quel 20% circa di pazienti che durante il trattamento con trastuzumab mostrano un declino della funzione cardiaca e in cui oggi noi ci sforziamo di andare avanti, aggiungendo farmaci cardioprotettori e purtroppo osservando a volte episodi di cardiotossicità anche importanti, io ritengo si possa sospendere il trattamento, senza timore di compromettere l’efficacia del trattamento stesso.”
Maria Rita Montebelli