“Il Patto per la salute, ha
dichiarato Carlo Lusenti, assessore alla sanità dell’Emilia Romagna, nasce sulla base di uno scambio istituzionale molto chiaro: cessione di sovranità in cambio di risorse”. Una transazione, quindi, come quelle in cui per soldi si concede qualcosa, qualsiasi cosa.
Cedere la sovranità, per una Regione, non significa solo sottomettere la propria autonomia istituzionale allo spending power di un tiranno finanziario, ma anche disporre della propria gente, quindi dell’indisponibile, e permetterne lo sfruttamento. Se le Regioni lasceranno che si taglino i lea, che si ricavino altri 2 mld di euro tassando le malattie dei propri cittadini, che la spending review sia usata per fare fieno come una falciatrice, ebbene, esse consentiranno in un modo o nell’altro, la svendita dei diritti.
La Costituzione ha dato loro la “sovranità” per difendere i diritti, non per alienarli. Il nodo politico è perché le Regioni non riescono a fare della loro sovranità la loro prima risorsa piuttosto che una merce di scambio. Cioè perché non riescono a mettere in campo strategie di produzione delle risorse facendo di un limite una possibilità? Di idee, proposte, elaborazioni in giro ce ne sono diverse. Ma le Regioni sembrano sorde, indifferenti, refrattarie a qualsiasi pensiero innovativo. Forse con la riforma del titolo V della Costituzione abbiamo fatto il passo più lungo della gamba, o meglio le Regioni nell’acquisire nuovi poteri non sono evolute ne nei loro apparati (vi ricordate la discussione sulla holding?) ne nella loro capacità di governo e come i giganteschi sauri della preistoria, si sono ritrovate con una forza legislativa enorme ma con cervelli poco proporzionati. Vorrei davvero che esse prendessero coscienza di quanto paradossale sia avere la responsabilità costituzionale dei diritti,quindi dei poteri necessari per tutelarli e affogare in un debole riformismo conservatore fino a restarne prigionieri.
Cedere sovranità, non vi è dubbio, è anche un segno involutivo di una politica in generale sempre più decadente che, senza eccezione, anche in sanità ha usato la spesa per costruire consenso. Altrimenti non si spiegherebbero primari soprannumerari, duplicazioni di servizi, consulenze, incarichi anche prestigiosi, ospedali superflui, dovuti ad affiliazioni politiche e a clientele di diverso tipo. Le Regioni rispetto al vecchio conflitto tra diritti e risorse, avrebbero dovuto essere i veri problem solvers ma esse, con poche eccezioni, non hanno mai risolto fondamentalmente niente. Sono anni che si arrangiano tagliando qua e la, infilando uno dietro l’altro patti che non hanno fatto altro che scambiare i diritti degli altri con un po di elemosina.
Questo, come si dice con una espressione forte, “mi fa senso”. Mi fa senso il cinismo di questa stupida politica, la sua ipocrisia che per inasprire le tasse sulla salute balbetta di equità. Mi fa senso che sia questa mediocre politica a decidere le condizioni materiali delle persone malate e il destino dei diritti. La sanità pubblica se morirà, (io spero proprio di no e se scrivo è perché non voglia che muoia), non morirà a causa della crescita della spesa, dell’invecchiamento della popolazione, della crisi economica, della crescita della domanda, della spending review ecc, ma morirà di ignavia politica dove al pressapochismo dei poteri istituzionali, alle loro incapacità riformatrici, si aggiungerà l’indifferenza consociativa dei suoi principali interlocutori sociali che incomprensibilmente tacciono.
Ivan Cavicchi