12 febbraio -
Gentile Direttore,
partiamo da un dato oggettivo: oltre quattro mesi fa la
Corte costituzionale ha sentenziato che il principio secondo cui è reo chi aiuta la persona che vuole porre fine alla sua vita non è da intendersi universalmente valido, come finora stabilito nella formulazione dell’articolo 580 del codice penale. Si configurano cioè casi in cui l’aiuto al suicidio non sarebbe reato, e specificamente non è punibile chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Poi la sentenza rimanda ad altri, nella fattispecie dei comitati etici, il compito di stabilire caso per caso se queste condizioni sono soddisfatte, ma questo è un altro discorso; il principio adesso è che in presenza di tali prerequisiti non c’è punibilità ex art. 580.
Tale nuovo principio è stato però disconosciuto non solo dai soliti no-choice clericali, che alla fine esprimono la loro opinione non certo vincolante per nessuno, ma perfino dal massimo organo confederato degli ordini dei medici, cioè la Fnomceo. Il presidente Filippo Anelli ha espresso delle opinioni abbastanza trancianti in merito, emerse da una discussione in seno alla loro Consulta deontologica, cominciando col dichiarare che il medico genericamente inteso “non compirà l’atto fisico di somministrare la morte”. Ma la Corte costituzionale aveva appena stabilito che chi lo fa può non essere punibile, viene quindi da chiedersi da cosa derivi questa assoluta certezza della Fnomceo.
Anelli ha inoltre aggiunto che “se è un alto diritto la possibilità di scegliere autonomamente e liberamente sulla propria salute, assicurata dall’obiezione di coscienza, lo stesso principio deve poter valere anche per il medico che si considera fermo sostenitore della tutela della vita”, sentenziando così una sorta di contitolarità della vita tra paziente e medico. Il primo è chi quella vita la vive e l’ha vissuta, ma qualunque diritto su di essa sarebbe esercitato alla pari con il medico che lo assiste. Anzi, forse nemmeno tanto alla pari, visto che il medico può perfino opporre un veto al proposito del paziente. Alla fine, secondo la Fnomceo, se il suicidio assistito è un diritto riconosciuto lo Stato dovrà anche individuare chi potrà metterlo in pratica, perché i medici non lo faranno.
Pochi mesi dopo la palla è passata però al
Consiglio nazionale della Fnomceo che ha dovuto inevitabilmente aggiornare il codice deontologico alla luce della novità introdotta dalla Corte costituzionale. Il risultato è un capolavoro di machiavellismo: da un lato si prende atto della sentenza e anzi se ne incorpora la parte più importante quasi letteralmente, dall’altro si stabilisce che “la libera scelta del medico di agevolare il proposito di suicidio va sempre valutata caso per caso”.
In altre parole si è partiti da un “il medico non aiuta mai nessun aspirante suicida” per finire con “il medico può aiutarlo ma noi stabiliremo se ha fatto bene o male”. E chi se ne frega se una sentenza del giudice delle leggi ha stabilito che non è punibile l’aiuto al suicidio; non lo sarà dal punto di vista penale, ma l’aspetto disciplinare compete a Fnomceo che può anche non tenerne conto.
A ribadire ulteriormente la rivendicazione di autonomia giurisdizionale della Fnomceo è ancora una volta Anelli, il quale ha aggiunto: “restano fermi i principi dell’articolo 17, secondo i quali il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”. Come dire che in generale non lo facciamo mai, qualcuno può farlo ma poi se la vedrà con noi, e comunque non si fa. Chiarissimo. O no?
Massimo Maiurana
Membro del Comitato di coordinamento dell'Unione Atei e Agnostici Razionalisti (Uaar)