5 settembre -
Gentile Direttore,
di recente sono stato invitato a un ennesimo dibattito sulla legge sulla responsabilità medica. Tuttavia, a mio avviso, è inutile discutere di ulteriori possibili miglioramenti del testo quanto, invece, premere perché si riesca a promulgarlo; se fosse persa questa occasione di avviare un qualche cambiamento in una situazione ormai ingestibile, non credo che se ne potrebbe ridiscutere se non dopo molto tempo.
Allora, sperando che il Parlamento proceda speditamente, mi sembra opportuno avviare un discorso concreto, anch'esso ineludibile, sui rapporti tra diritto e evoluzione della medicina. I temi sono molteplici e tutti importanti ma ora vorrei soffermarmi su una questione strettamente connessa alla legge sulla responsabilità professionale: la colpa professionale come fatto penale. Solo il diritto italiano insieme a quello di pochissimi altri paesi conosce questa figura penale; in realtà il problema è stato sollevato, ma solo per escluderne ogni possibile soluzione. Credo invece che, a partire da concetti generali, si possa tentare di affrontarlo. Ci provo in termini assai poco giuridici ma concreti.
Le leggi nascono da norme fondamentali che si esprimono attraverso le procedure del diritto. Non è una proposizione filosoficamente precisa ma mi sembra sostenibile. La norma che traduce il valore della responsabilità dei propri atti sostanzia tutte le leggi in base alle quali se vi è un danno chi lo procura lo deve risarcire. Neminem ledere in termini di codice civile sembra ovvio e applicabile.
Trascurando, per comodità di esposizione, le difficoltà reali, veniamo al penale. In questo caso la responsabilità del danno è intenzionale e quindi merita una punizione. Il che, che io sappia, si interpreta sul piano della giustizia retributiva o della tutela sociale o della riabilitazione. Il reo paga il suo debito nei confronti della società che si preoccupa della sua rieducazione. Il concetto di redenzione è soltanto religioso e non ci interessa.
Ma il legislatore italiano ha scoperto il concetto di colpa professionale. Un danno non intenzionale, né preterintenzionale, ma per negligenza, imperizia o imprudenza. Il che provoca la collocazione del risarcimento su un doppio binario, quello civile per sanare il debito col danneggiato, quello penale per soddisfare la sete di giustizia della società. A questo punto mi sorgono alcune perplessità. Intanto la colpa deve essere dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio.
Un esercizio spesso impossibile o inutile, in particolare nello svolgersi della medicina moderna, talmente complessa o poliprofessionale da richiedere comunque parametri di valutazione probabilistici e multicausali. Ma la questione più rilevante riguarda la finalità del processo penale. Una volta individuato il responsabile (il reo in questo caso), il che capita in una percentuale inferiore a cinque casi su cento -statistiche giuridiche ufficiali alla mano-, che funzione ha la sanzione? Di solito sono trascorsi molti anni dal fatto e la persona è cambiata e ha già abbastanza sofferto per il lungo procedimento e ha riflettuto e corretto il comportamento che provocò il danno.
Di fronte a comportamenti che abbiano recato un danno esistono inoltre, e possono essere affinati, strumenti per la formazione e la correzione delle carenze del professionista e dell'organizzazione. La vera sanzione non consiste nella condanna a qualche mese di carcere con la condizionale ma è quella professionale, lo stop della carriera, la sanzione economica, l'obbligo formativo, l'affiancamento con un tutor, e così va. Che senso ha mettere in movimento un sistema faraonico, quale la giustizia penale, per ottenere il contrario, cioè una sofferenza morale e economica per il responsabile, ma niente di ciò che servirebbe realmente, la riprofessionalizzazione rispetto alle carenze che hanno causato il fatto?
La vera giustizia consiste nell'abolire l'inutile figura della colpa come fatto penale. Se vi è un danno si paga e il responsabile, se lo ha provocato per imperizia o negligenza o imprudenza, che sia posto nelle condizioni di non ripetere simili comportamenti. Questo è utile alla società, forse meno agli avvocati o ai magistrati. Inoltre in tal modo si potrebbe restituire funzioni concrete agli Ordini professionali, ovviamente resi idonei a questa funzione. Perché l'Ordine sarebbe l'organismo naturale per la valutazione professionale e per indicare gli eventuali strumenti d'intervento. In conclusione chi non segue le regole deve imparare a farlo, questo è l'importante, il resto è sovrastruttura ingiusta e ingiustificata.
Antonio Panti
Presidente Omceo Firenze