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QS Edizioni - sabato 23 novembre 2024

Lettere al Direttore

Comma  566. Se non è la soluzione ridiscutiamolo. Ma infermieri non si faranno mettere altri lacci 

di Roberto Romano
29 luglio - Gentile direttore,
mi collego all’interessante riflessione del collega Luca Fialdini. Anche io credo, e come potrei fare altrimenti, nella necessità di una profonda rivisitazione delle competenze infermieristiche. Questo può essere un momento storico per l’intera professione come, questo è pacifico, può diventare una Caporetto per tutti noi (area medica compresa). La variabile che deciderà tutto si chiama “coesione”.
 
L’infermiere è, da sempre, uno strano animale (mi si passi il termine che non vuole ovviamente essere offensivo, visto che anche io faccio parte della categoria, felicemente e da circa venti anni) che tende a farsi del male da solo. Fialdini ci ricorda un numero: 423000. Tanti sono gli infermieri iscritti ai collegi IPASVI Italiani. Una forza professionale, politica e contrattuale. Come la nostra neo presidente federale Mangiacavalli ha recentemente affermato siamo disposti a costruire un dialogo con chiunque, ma gli interlocutori latitano o temporeggiano.
 
Mi ha colpito negativamente, anche se me lo aspettavo, il fatto che le componenti mediche abbiano scelto di trattare col Ministero su un tavolo separato. Si parla di unione di intenti ma non si siede agli stessi tavoli. Si dice che si deve lavorare insieme ma non si abbandona la logica asimmetrica, per la quale una professione vuole “contare” più delle altre, che ha regolato i rapporti tra medici ed infermieri praticamente da sempre. Quello che salta agli occhi è che ci sono due professioni su due binari separati che paiono correre una, quella medica, a freno tirato come se avesse paura di prendere velocità (e magari di perdere qualcosa per strada) e l’altra, quella infermieristica, che prova a sciogliere quelle catene cui storicamente è vincolata e che non fanno bene, in primis, al soggetto primo delle nostre attenzioni, il paziente. Dicevo prima della forza numerica e contrattuale degli infermieri. 423000 persone che si fanno sentire, che votano, che si orientano anche politicamente sono, o meglio sarebbero, in grado di spostare grandi equilibri. Ad un osservatore attento non può non saltare agli occhi che dopo le grandi spinte evolutive dei primi anni ’90, nei fatti, la professione infermieristica ha subito una battuta di arresto.
 
Forse quelle spinte erano premature? Non so, varrebbe la pena riflettere su questo. In quegli anni gli infermieri erano tutti “professionali”, esistevano ancora i generici e molti, all’epoca, giovani infermieri avevano avuto accesso alla professione con il solo biennio di scuola superiore. Nel giro di pochissimi anni abbiamo istituito diplomi universitari, poi trasformati in lauree triennali, master di primo livello e laurea specialistica. Il requisito principale di accesso al corso di Laurea è ovviamente diventato il possesso del titolo di maturità. La domanda è: Quanti colleghi abbiamo lasciato sul percorso? Quanti sono quelli che realmente sono evoluti, anche culturalmente, e quanti, al contrario, sono rimasti fermi ad una mentalità più vicina al periodo precedente alla abolizione del mansionario? Quanto, poi, le organizzazioni sanitarie si sono modificate per permettere a questi “nuovi” professionisti di operare al meglio? Credo che se si vuole davvero fare un ulteriore passaggio culturale, ed il 566 richiede forse più questo che una mera variazione di attribuzioni ed organizzativa, ci si debba interrogare seriamente anche su questi aspetti.
 
Certo, i tempi sono maturi per crescere. Ce lo chiede la professione, da più parti e con sfumature a tratti differenti, ce lo chiede l’Europa, che ha in tutti i suoi Paesi membri assetti sanitari in cui gli infermieri riescono davvero, a differenza dell’Italia, a fare il lavoro per cui sono formati e, soprattutto, ce lo chiede la gente. La popolazione italiana, sempre più alle prese con la cronicità, richiede a gran voce una presa in carico dei propri problemi. Per questa richiesta l’infermieristica è LA soluzione.
 
Medici evoluti, culturalmente e a livello di vision sanitaria, accanto ad infermieri competenti che abbiano il loro giusto ed ampio spazio di autonomia e responsabilità. Questo non significa, per buona pace dei timorosi, che gli uni debbano sconfinare nelle competenze degli altri ma, al contrario, che le competenze più ampie degli uni (infermieri) permettano agli altri (medici) di occuparsi realmente di tutti quegli ambiti di diagnosi e cura dove DAVVERO possono e devono fare la differenza. Questo è un banale concetto di razionalizzazione delle risorse che non è possibile non comprendere.
 Non posso che unirmi, modestamente, alla voce della presidente Mangiacavalli quando richiama alla necessità di una nuova forma mentis. I medici non hanno bisogno di definire l’atto medico, dato che da questo scaturirebbe inevitabilmente una limitazione delle loro competenze, come gli infermieri non hanno bisogno e non vogliono nuovi mansionari o tuttologi che decidano sulla specificità del loro lavoro.
 
Non si affrontano problemi nuovi con vecchi strumenti. Questa è l’ora di crescere insieme e di farlo per i pazienti che tutti i giorni ci chiedono di essere assistiti al meglio. Le guerre tra professioni lasciano solo macerie. Andiamo avanti e facciamolo insieme, magari scegliendo, dalla prossima volta, di sedere tutti intorno allo stesso tavolo e non su tavoli separati. Nel mentre gli infermieri, tutti, decidano cosa vogliono fare da grandi e lo dicano chiaramente e senza timore rappresentando il loro essere professionisti, degni di rispetto e considerazione, (ricordate quel numero? 423000) in tutti gli ambiti che gli sono propri.
 
Soprattutto muoviamoci, la gente non ha tempo e nemmeno voglia di attendere diatribe interprofessionali che, oltretutto, nella pratica clinica giornaliera sono in gran parte superate da ottimi medici, infermieri e rappresentanti di altre professioni sanitarie che lavorano sul campo e che hanno sdoganato le competenze specialistiche, nella pratica quotidiana, già da molto tempo. Se il 566 non è la soluzione, e magari non lo è, ridiscutiamolo (il che non significa presentare variazioni unilaterali allo stesso pretendendo che gli altri le accettino passivamente), ma gli infermieri non si faranno mettere altri lacci da chi, col proprio comportamento, sembra voler tutelare soltanto una posizione di privilegio e di potere. Gli infermieri vogliono parlare dei pazienti, dei loro bisogni, e dare loro risposte. Aspettiamo i medici su questo terreno e, possibilmente, allo stesso tavolo.
 
 
Roberto Romano
Consigliere IPASVI Firenze
29 luglio 2015
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